Da “Roses” a “Bando”: il 2020 è l’anno dei remix. È un bene o un male?

In principio venne la musica, poi il remix. Prendendo spunto da una semicitazione tratta dal libro più venduto di sempre – no, non si tratta di Harry Potter -, parliamo oggi del remix. Negli ultimi tempi è un concetto che è tornato prepotentemente in auge, grazie a diversi singoli, a un manipolo ben nutrito di artisti e a una situazione discografica ben lontana dalla normalità.

A guardare l’Italia, il primo nome che oggi viene in mente parlando di remix probabilmente è quello di Anna. La giovanissima rapper di La Spezia ha infatti visto la sua “Bando” decollare verso l’Olimpo dello streaming del nostro Paese, senza avere neanche il tempo di rendersi conto di cosa stesse succedendo. Per continuare a cavalcare l’ondata del successo, l’artista ha visto poi il brano digievolvere in molteplici remix, da quelli di matrice italiana – come quello con Gemitaiz & MadMan – a quelli stranieri, come quello con Maxwell o con Rich The Kid. Badate bene, abbiamo scritto che Anna “ha visto” succedere tutto ciò, perché si tratta di scelte discografiche. L’incredibile successo del brano, che ha raggiunto la top 10 nelle classifiche di diversi paesi europei, ha infatti spinto la discografica a organizzare a tavolino questo remix. La scelta è dettata dalla possibilità di permette all’artista di far breccia in nuovi mercati, e al brano di continuare a scalare posizioni in classifica, spazio in airplay radiofonico e, di conseguenza, soldi e visibilità. Non è stata Anna a scrivere un DM a Rich The Kid per organizzare il remix, così come non è stato quest’ultimo a contattare la Dark Polo Gang nel 2018 per il remix di “Plug Walk”. Il che significa che è inutile accanirsi con gli artisti, colpevolizzandoli di manovre con cui hanno relativamente poco a che fare; nel caso specifico di Anna, poi, il pubblico italiano sembra tristemente alla ricerca di qualunque pretesto per attaccarla frontalmente. Il perché ci è ancora poco chiaro, ma lo scenario è abbastanza desolante.

Tornando a parlare di remix, spesso questi riescono anche a donare una seconda vita, e una nuova pelle, ai brani. Prendiamo il caso di “Old Town Road” di Lil Nas X, che ha mandato in tilt la discografia statunitense – “è rap? È trap? È country? Lo mettiamo in classifica? Lo togliamo dalla classifica?” – con il singolo frantuma-record, e con l’annesso remix, realizzato con Billy Ray Cyrus. O con gli altri sei miliardi di remix usciti del brano, che ad un certo punto aveva monopolizzato il mercato. Sempre il giovane rapper americano ha firmato un altro remix del tutto inatteso per la sua “Rodeo”, trovandosi sulla stessa traccia con Nas. In Italia invece stiamo ancora a lamentarci che vecchia e nuova scuola non possono coesistere. “Nas X or Big Nas, this shit ride”, nel frattempo l’autore di Illmatic la pensa così.

Un altro esempio fortunato di nuova vita di un brano, dovuta ad un remix, è quello di “Roses”, singolo di SAINt JHN del 2016. Il brano è infatti diventato virale nell’ultimo periodo, grazie a un fortunato remix firmato da Imanbek. Si tratta di una versione che stravolge le atmosfere del brano originale, molto più onirico, sincopato e delicato, trasformandolo in una hit ballabile, pronta a scatenare il delirio nei club (virus permettendo). “Roses – Imanbek Remix” conta più di 10 volte il numero di stream dell’originale e circa 70 volte il numero di stream del remix della traccia con la collaborazione di Future. L’esplosione è inequivocabile: il remix ha catapultato la traccia nel mainstream, l’ha portata al cospetto di un pubblico completamente diverso da quello di SAINt JHN – che in Italia aveva calcato il palco del Rock in Rome, in apertura a Post Malone. Una mutazione genetica del brano, rivoluzionato fino al midollo, in grado di scrivere una pagina importante della musica recente, nonché di regalare a SAINt JHN la sua prima #1 nella Billboard Hot 100. In Italia poi il brano ha visto un ulteriore remix, con due strofe aggiuntive firmate da Fedez e Dargen D’Amico, sempre per restare in tema di evoluzioni imprevedibili.

L’elenco, volendo continuare, sarebbe davvero, davvero lunghissimo. Da remix drastici, che rivoluzionano la natura del brano – come nel caso di “Roses” -, all’aggiunta di strofe inedite per prolungarne il successo, con risultati più o meno di livello – qualcuno ricorda il remix con Future di “Congratulations” di Post Malone e Quavo? -, oppure semplicemente la presentazione del brano con una versione differente – ma non uno stravolgimento stilistico – della strumentale, come spesso accadeva nei dischi rap della golden age, che avevano questi remix come bonus track; qualcuno ad esempio si ricorda come suonava questa, nella sua versione contenuta in “950” di Fritz Da Cat?

Si tratta di un meccanismo tutt’altro che nuovo, ma che ultimamente sta acquistando un peso specifico notevole, grazie al crollo delle barriere tra generi musicali, alla fluidificazione del suono e dello stile, ma soprattutto all’internazionalizzazione del mercato. Una hit, un banger di successo, oggi ha la possibilità di vivere e risplendere in tutto il mondo, anche se non è nato in America. Una vera e propria rivoluzione, e le discografiche non intendono lasciarsi scappare la possibilità di macinare risultati utili in ogni angolo del globo. Biasimarli ha davvero poco senso.