A qualsiasi età i Club Dogo possono parlare di ciò che vogliono

Club Dogo” è uscito lo scorso venerdì, accompagnato da aspettative altissime. 10 Forum sold out prima ancora di sapere che sarebbe uscito un nuovo disco. Un pop up (di tre giorni) frequentato da migliaia di persone delle più svariate età anagrafiche. La Top 50 di Spotify Italia dominata dagli 11 brani del disco, tutti quanti nelle prime posizioni. L’annuncio di San Siro a coronare il tutto.

Il disco dei Club Dogo sta ottenendo ottimi risultati, eppure parte dei commenti che sono circolati sui social in questi giorni tendono a definirlo “disco di plastica”, sottolineando le ripetizioni di barre monoflow, i beat elementari, i contenuti ridondanti e già sentiti, soprattutto in relazione all’età ormai pianamente adulta dei tre artisti.

Non c’è nulla di realmente inesatto in questa critica. Il nuovo disco del collettivo milanese parla delle stesse cose di cui hanno sempre parlato: i baggy e i tattoo, i pusher e le glock, le casse dei club e i marchi costosi, lo smog della strada e le giacche di pelle, le Range e le Lotus, le Jordan e le BAPE.

Accusare però i Dogo di superficialità di scrittura e mancanza di contenuti, più che triste o sbagliato, significa non aver mai realmente capito la loro musica, e neanche il rap game. E significa non aver mai ascoltato rap d’oltreoceano. Probabilmente tutte e tre le cose insieme.

Ho cambiato il rap game coi Club Dogo, frate / Come se avessimo inventato noi questo gioco, frate

Jake La Furia in “Frate”

20 anni fa, sono stati loro i primi a sdoganare racconti popolari che fino ad allora erano solo tabù, a introdurre nelle proprie canzoni tematiche pulp che hanno formato e fatto da apripista ai giovani rapper di oggi. Hanno per primi dimostrato come per il rap potesse esistere un’altra via rispetto all’underground e come si potessero fare dischi di valore anche senza parlare di politica e introspezione.

Quella del 2024, quindi, è la loro versione autentica e originale: liriche purissime, narrazione cruda e poetica della vita di strada, incastri sopraffini, riferimenti cinematografici, i sample, l’ostentazione, perché sì, l’ostentazione del proprio status symbol è dannatamente hip hop.

C’è continuità rispetto a dove avevano lasciato, coerenza rispetto a chi sono sempre stati. Club Dogo è ossigeno nella scena mainstream. È rap, un genere in cui attitudine, flow e barre contano più di tutto il resto. È anche esercizio di stile, certo, ma fatto estremamente bene.

Foto di
Federico Hurth