E anche quest’anno siamo giunti al primo vero rituale pre-Sanremese, ovvero l’ascolto a porte chiuse dei brani in gara da parte dei giornalisti specializzati, alla presenza del direttore artistico Carlo Conti. Dare un parere su una canzone che hai sentito una volta sola e poi mai più è difficilissimo (soprattutto se l’hai sentita insieme ad altre 30 canzoni inedite, il che è esattamente quello che è successo stamattina), e questo è il motivo per cui a differenza di altri articoli simili non troverete voti veri e propri, ma solo descrizioni e riflessioni: ci sarà tempo per valutare con più calma.
Un paio di ragionamenti ad alta voce, però, possiamo già farli. Innanzitutto, che il gusto e i riferimenti anagrafici del direttore artistico come sempre contano molto nella selezione finale delle tracce: se con Amadeus primeggiava la cassa dritta, quest’anno ci sono tantissime ballad e tantissimi arrangiamenti malinconici ispirati alla disco italiana ed europea anni ’70, in stile ABBA, per intenderci. Come già noto, inoltre, i temi sociali sono praticamente assenti, e anche il rap è molto virato verso il pop, nel senso che le strofe vere e proprie sono poche e isolate. Conti sostiene di non aver interferito con le scelte degli artisti e di essersi limitato a giudicare quello che gli è arrivato, e noi gli crediamo: il fatto è che probabilmente, volendo essere più realisti del re e avere più chance di essere presi, ormai la tendenza è quella di uniformarsi alle preferenze di chi giudica. Ci manca un po’ il coraggio e la vena di follia di quei Sanremo in cui partecipare al Festival non risollevava né affossava carriere, e quindi si arrivava alle selezioni con un po’ di sana incoscienza.
Questa tendenza a non rischiare sembra confermata anche nella scelta dei co-autori dei brani, che sono quasi sempre gli stessi: Petrella, Ettorre, Abbate, Simonetta e Antonacci, oltre a produttori come Davide Simonetta e Zef, hanno contribuito a più della metà dei brani in gara, e un po’ si sente (Marracash in questo è stato meglio di Nostradamus). La nota positiva, però, è che rispetto a quanto alcuni temevano, quello 2025 è ancora un Sanremo molto contemporaneo, che parla agli ascoltatori di oggi e si mette in gioco con quelli di domani. Ecco quindi le nostre prime impressioni, in attesa di riconfermare o ribaltare il risultato a febbraio.
ACHILLE LAURO – Incoscienti giovani
Una ballatona d’atmosfera e di grande effetto, sugli attimi che fuggono e i rapporti che non tornano più: ben arrangiata e delicata, con l’interpretazione un po’ sguaiata di Lauro colpisce ancora più nel segno. La scelta di una canzone che sembra essere fatta per essere cantata in coro in un accesso di nostalgia è azzeccatissima: potrebbe essere da podio se non da vittoria, perché piacerà sia alla Gen-Z che agli anziani (tutti siamo stati giovani, in fondo).
GAIA – Chiamo io chiami tu
L’uso della voce in questo brano è molto interessante: un cantato sottile, a tratti appena sussurrato, per una produzione che prende in prestito tutte le componenti più raffinate del mondo latino (chitarra classica, percussioni e shaker in testa). Il risultato finale è molto trascinante ma anche molto sofisticato, con un bel crescendo che lo rende un pezzo fatto e finito, e non una delle solite canzoncine costruite ad hoc per TikTok. Gaia finalmente è valorizzata in tutta la sua bravura.
WILLIE PEYOTE – Grazie ma no grazie
Atmosfere brasileire, chitarrina latin funk incalzante, questo pezzo ti frega: sei talmente impegnato a battere il piedino che quasi non ti accorgi di quel ritornello che ti invita ad andare a lavorare e non a “farti manganellare nelle piazze”, perché in fondo sono tutti fancazzisti e “li mantengo io con le mie tasse”. Forse l’unica parentesi davvero socialmente impegnata di questo Festival, con una delivery che arricchisce e non appesantisce e la partecipazione speciale di Raige (ex One Mic) tra gli autori.
RKOMI – Il ritmo delle cose
Le atmosfere da disco anni ’70, accompagnate da liriche malinconiche e disilluse, sulla carta sembrano una scelta azzardata per Rkomi, che invece riesce a risultare super a fuoco e molto più a suo agio rispetto al Sanremo precedente. Sembra una canzone d’amore ma è molto di più, e ha un testo memorabile, forse tra i più belli che Mirko abbia mai scritto: “Quante cose costruiamo distruggendo, è un violento decrescendo”, recita il ritornello. Il rap fa parte del mondo di questa canzone, ma gli orizzonti si spingono ben più in là. Tra l’altro è co-prodotta da Shablo.

ROSE VILLAIN – Fuorilegge
Co-prodotta con il marito SIXPM, è una canzone d’amore incalzante che ha la stessa matrice di Click Boom, mescolando vari stili e influenze. Ci sono il bel canto, le metriche urban, un effetto vocale robotico alla Imogen Heap, la cassa ossessiva e martellante. Anzi, a dire il vero ci sono talmente tante sfumature che ci riserviamo di giudicarlo dopo averlo assimilato meglio: un solo ascolto non è sufficiente.
IRAMA – Lentamente
Anche Irama sceglie una formula già ampiamente collaudata: Lentamente è una super ballata minimal, intima e struggente, oggettivamente molto ben costruita e nelle sue corde. Ai suoi fan piacerà, lui la interpreta benissimo e al Festival funziona, ma avrà molta concorrenza, perché quest’anno sul palco di Sanremo le ballad struggenti sono parecchie.
CLARA – Febbre
Una delle artiste che nell’ultimo anno è cresciuta di più. Rispetto allo scorso Sanremo risulta molto più a suo agio anche su metriche complicate e strofe serrate, senza forzature o passi falsi. Però anche nel suo caso il mondo resta quello e non ci sono grandi sorprese: atmosfera vagamente inquietante e dilatata sulle strofe, cassa drittissima sui ritornelli, per un pezzo d’amore e d’ossessione “per te che non vuoi scendere come la febbre”.
EMIS KILLA – Demoni
Un brano tutto cantato, con l’autotune che distorce cupamente l’atmosfera e un ritornello che entra a gamba tesa e cassa dritta per raccontare i risvolti di una storia d’amore un po’ tossica. Emis Killa regge bene qualsiasi prova, ma forse i fan dell’hip hop sentiranno la mancanza del côté più classicamente rap. D’altronde, in contesti nuovi è giusto mettersi alla prova con idee nuove.
FEDEZ – Battito
Come è noto parla di depressione, e quindi ovviamente la componente malinconica e ossessiva è predominante. Di fatto, però, parla soprattutto degli effetti della terapia antidepressiva, cioè degli psicofarmaci: barre come “Dottore che cosa mi ha dato / socialmente accettato / anestetizzato” sembrano la didascalia perfetta al video in cui appariva un po’ stordito e confuso alla presentazione dei brani di Sanremo. Detto ciò, considerando che nel rap la depressione è stata già raccontata magistralmente da un gigante come Marracash, reggere il paragone sarà difficile.
BRESH – La tana del granchio
Con quelle chitarre terzinate come ai falò in spiaggia, è un pezzo scritto molto bene, che usa immagini e metafore mai scontate (come quel sacchetto di plastica con i costumi bagnati, dimenticati nella macchina sotto il sole tutta l’estate) per parlare d’amore. Sicuramente anche questo potrebbe diventare un anthem da cantare in coro, e sicuramente Bresh si conferma una delle penne più interessanti del momento.

TONY EFFE – Damme ‘na mano
Damme ‘na mano più che rappato è recitato: gli stornelli si fondono con chitarre e nacchere da flamenco, e le immagini lussuriose sono tutto sommato abbastanza innocue. In pratica, è il pezzo perfetto per neutralizzare le critiche delle vecchie signore della platea dell’Ariston che si scandalizzano per le parolacce e i tatuaggi. Tony è un bad boy in salsa nazionalpopolare e canta alla sua città, Roma: dichiara che la lascerà sola per andare alla partita e che l’unica donna che ama è sua mamma. Nessuno scandalo in vista.
ELODIE – Dimenticarsi alle 7
In sottofondo si percepiscono echi disco malinconici e raffinati, un po’ in stile Abba o Alcazar: questa canzone sarebbe perfetta per chiudere una serata in discoteca in cui tutto è andato storto, le piume e i lustrini cominciano a pizzicare e il mascara è un po’ sbavato, ma l’unico modo per superare lo struggle è continuare a ballare. Elodie è la dancing queen che ci meritiamo.
SHABLO feat. GUÈ, JOSHUA E TORMENTO – La mia parola
Un anthem da club senza tempo, di quelli che ballavamo vent’anni fa e balleremo ancora tra vent’anni: tra le atmosfere alla No Diggity dei Blackstreet, un ritornello canticchiato che ci richiama alla memoria il miglior Nate Dogg e un wordplay leggero e pieno di inventiva alla Meth & Red in How High, chi ama l’hip hop troverà pane (e reference) per i suoi denti. “La voce del blocco suonerà più forte / per quelle volte che ci hanno chiuso le porte”: è la rivincita di una scena un tempo underground che oggi ha conquistato anche il palco più istituzionale di tutti.
FRANCESCO GABBANI – Viva la vita
Power ballad serena e ottimista, strabordante di archi e di positività grazie a motti di buonsenso come “Viva la vita finché ce n’è”. Rappresenta il Sanremo che eravamo abituati a immaginarci prima del cambiamento: tanta tradizione (anche fatta molto bene, per carità) ma poca innovazione. Piacerà al pubblico adulto.
CLARA – Febbre
Una delle artiste che nell’ultimo anno è cresciuta di più. Rispetto allo scorso Sanremo risulta molto più a suo agio anche su metriche complicate e strofe serrate, senza forzature o passi falsi. Però anche nel suo caso il mondo resta quello e non ci sono grandi sorprese: atmosfera vagamente inquietante e dilatata sulle strofe, cassa drittissima sui ritornelli, per un pezzo d’amore e d’ossessione “per te che non vuoi scendere come la febbre”.
NOEMI – Se t’innamori muori
Il brano è tradizionale, ma è stato scritto da Mahmood e Blanco, il che gli conferisce già da solo una vena molto contemporanea. È una classica ballata costruita per la voce straordinaria di Noemi, su un amore tormentato di quelli che ti danno “la sensazione che se t’innamori muori / serenamente”. Non particolarmente innovativa, ma molto bella.
LUCIO CORSI – Volevo essere un duro
Il testo è bellissimo, una critica a questa società individualista e perennemente imbruttita: racconta di un ragazzo che voleva essere un duro, un robot, una medaglia d’oro di sputo, ma fatalmente è tutt’altro. “Volevo essere un duro però non sono nessuno”, conclude tra il serio e il faceto. Un adorabile freak come Lucio Corsi non poteva che cantare qualcosa del genere.

THE KOLORS – Tu con chi fai l’amore
Un pezzo scritto dal mostro finale degli hitmaker: per la precisione un mostro a tre teste, formato da Stash, Davide Petrella (aka Tropico) e Calcutta, più Zef alla produzione. Alla fine, però, ciò che doveva premiarli finisce per penalizzarli un po’, perché sembra una sorta di Frankenstein costruito con tante componenti organiche di hit diverse. C’è l’apertura cantautorale, c’è l’italodisco, c’è il basso funk sanremese sdoganato da Silvestri in Salirò, ci sono reminescenze di Hung Up di Madonna… Funzionerà bene, ma è difficile riuscire a giudicarla come un corpus unico sul piano della scrittura.
ROCCO HUNT – Mille volte ancora
La melodia partenopea classica si mescola ad atmosfere più attuali, con una strofa rappata in napoletano. Rocco Hunt ricorda quando era bambino e esprime nostalgia di casa, non risparmiando però critiche alla sua terra “Dove ancora si muore per niente a vent’anni”: il riferimento è alle guerre di camorra che devono finire. Anche la sua è una rara concessione ai temi sociali, che in questo Festival troveremo poco.
BRUNORI SAS – L’albero delle noci
Quando Brunori attacca a cantare, tutti i giornalisti in sala sussurrano la stessa cosa: sembra di sentire un pezzo di Francesco De Gregori. Il che è ovviamente un complimento, però diciamo che è un tema su cui riflettere. Dal punto di vista cantautorale L’albero delle noci sfoggia una classe infinita, e l’orchestrazione è discreta ma perfetta: molto commovente soprattutto la parte in cui parla della sua Calabria, “Terra crudele in cui la neve si mescola al miele”.
SERENA BRANCALE – Anima e core
Il pezzo è molto gradevole, anche se a tratti ricorda quei brani dei primi anni ’00 in cui il jazz si univa alla dance, a fare da colonna sonora alle estati dei club più patinati della costa italiana (non a caso nel testo ci sono molti riferimenti turistici al nostro Belpaese). L’insieme, insomma, è molto gradevole, ma il difetto è che sembra costruita apposta per piacere a un pubblico molto trasversale: eppure lei che a un pubblico trasversale ci è arrivata con una clamorosa hit in dialetto barese (l’ormai immortale Baccalà) potrebbe permettersi di rischiare di più.
MARCELLA BELLA – Pelle diamante
Da qualche anno, a Sanremo i veri ego trip li fanno le dive di una volta: non fa eccezione Marcella Bella, che quest’anno si autodefinisce una donna tosta e indipendente e una stronza, per poi chiosare che “la mia più grande fan sono io”. Sembra che le cantanti over 70 si stiano riprendendo la giovinezza che non si sono mai potute permettere quando giovani lo erano davvero, e non recitare il ruolo della brava ragazza rischiava di stroncarti la carriera.
MASSIMO RANIERI – Tra le mani un cuore
Il mistero del come e del perché è nato questo pezzo è la prima cosa che colpisce: cosa avrà portato Tiziano Ferro e Nek a scrivere un pezzo per Massimo Ranieri? Per il resto, è una ballata un po’ retrò con tanto di assoli di sax, che a lui riescono benissimo, ma lasciano un po’ il tempo che trovano.
SARAH TOSCANO – Amarcord
Qui il problema non è tanto il pezzo, quanto l’assegnazione all’interprete: ha senso dare a una ragazza di 18 anni un brano da disco queen sofisticata in stile Annalisa? Forse no. Tra violini incalzanti (che alla sottoscritta ricordano un sacco uno spot anni ’90 di un celebre anello con diamanti, ma forse è un problema mio) e cassa drittissima nel ritornello, l’insieme non valorizza molto la freschezza di Sarah. Che però sicuramente avrà modo di farsi valere sul palco.
COMA COSE – Cuoricini
Un tagadà zarrissimo con vocine pitchate da anime per ragazzine: la combinazione è irresistibile, finalmente arriva qualcosa di davvero fuori dagli schemi a rompere il rituale. Cuoricini è un pezzo super divertente da ballare, meglio se in maniera scoordinata e mezzi sbronzi. Ma è anche un pezzo molto intelligente: cuoricini del titolo non sono quelli negli occhi di Fausto e California quando si guardano, ma quelli dei like, che curano l’autostima, ma tolgono il gusto di sbagliare tutto.
GIORGIA – La cura per me
Anche in questo caso co-firmata da Blanco, La cura per me è una canzone costruita interamente sulla voce di Giorgia, con un arrangiamento ridotto ai minimi termini per lasciarla unica protagonista. Lei è di una bravura stratosferica e potrebbe vincere, però se dobbiamo trovarci un difetto è che si tratta di un brano davvero molto italiano; da lei speravamo in qualche venatura R&B che finalmente potrebbe permettersi, visto che anche il nostro paese ha finalmente dimostrato di apprezzare il genere.
OLLY – Balorda nostalgia
Le atmosfere sono quelle del pop italiano anni ’90 (altrimenti noto come musica leggera): c’è pochissima contemporaneità e tantissime vibe sanremesi. Il tema è la nostalgia per una lei che non c’è più e i sentimenti che esprime sono senz’altro universali, tanto che potrebbe essere tra i favoriti alla vittoria, ma Olly poteva permettersi di essere un po’ meno tradizionale e un po’ più iconoclasta.
SIMONE CRISTICCHI – Quando sarai piccola
Il tema (l’Alzheimer di sua madre) è senz’altro molto commovente e il testo molto profondo. Chiunque abbia genitori o nonni anziani rischia di farsi scappare una lacrimuccia. Naturalmente, però, dal punto di vista stilistico Cristicchi resta Cristicchi: non aspettatevi grandi novità su quel fronte.
JOAN THIELE – Eco
Vorremmo dire che è una delle sorprese di questo Festival, ma il fatto che Joan Thiele sia clamorosamente brava non è una sorpresa per nessun vero fan della musica italiana, ormai. Questo brano dalle vibe anni ’60 e ’70, che esprime tutta la voglia di rischiare e di essere se stessi al di là dei trend e delle circostanze, sarebbe perfetto in una colonna sonora di Tarantino: ricorda le migliori interpretazioni di Mina e Patty Pravo, ma Joan Thiele lo rende assolutamente senza tempo. Al lavoro sul pezzo anche Emanuele Triglia (con cui Joan ha vinto il David di Donatello per Proiettili, interpretato da Elodie) e Mace, che lo ha prodotto.
MODA’ – Non ti dimentico
Cosa vi aspettereste da un pezzo dei Modà? Ecco, quello. Né più né meno.
FRANCESCA MICHIELIN – Fango in paradiso
Chiunque abbia vissuto una rottura sofferta dopo la fine di una storia su cui ha puntato tanto si rivedrà sicuramente nelle parole di questa canzone: “Chissà con chi farai un figlio / se poi cambierai indirizzo”. Raffinata, poetica, mai eccessiva o sopra le righe, Michielin come cantautrice è stata spesso sottovalutata, che sia la volta buona che finalmente la critica si accorga di quanto è brava?