«Allora esci?»
«Non ci penso nemmeno»
«Ma daiiii, qual è il problema?»
«I capelli»
«Ma stai scherzando? Tu sei fuori»
«NO»
«Ma tirateli indietro come facevi al liceo e fregatene»
«NO»
«Anch’io oggi ho dei capelli orrendi, sporchi, non li lavo dall’altro ieri ma chissenefrega»
Mastico un: «Sì, ciao, magari»
«Cosa?»
«Niente niente»
«Allora non esci?»
«NO-OH»
«Sei pesantissima»
«SÌ»
Interno giorno. Il dialogo tra due amiche. Un dialogo misto, come le coppie miste, una bianca e l’altra nera, Afro, black. Noi, voi: utilizzerò questo iato, questa cesura, per definire due gruppi di persone, di donne con tratti ed esperienze diverse.
Sì, perché Afro è una delle parole più utilizzate nella comunicazione cosiddetta inclusiva degli ultimi anni, in bocca a tutti ma nella testa di pochi, almeno in Italia.
Sulle copertine, negli editoriali, nei manifesti pubblicitari per strada, negli spot in tv, nelle dichiarazioni di brand e testimonial, il mondo del fashion è così afro-enthusiastic!
Afroitaliani, afrodiscendenti, afronatural, afropride, tessuti afro, stampa afro, influenze afro.
Afro è figo, afro è orgoglio, afro è giusto, afro è rap, R&B, trap, è contemporaneo e profuma di battaglia per i diritti. Spesso senza sapere come, ma la battaglia è sempre di moda.
Che tu sia un’intellettuale, una rapper, un’influencer, un’operatrice ecologica, un medico, i tuoi capelli sono o sono stati un tuo problema. La differenza sta solo nella scelta o nella successione infinita di scelte tecniche ed estetiche che racchiudono all’interno il tuo pensiero, l’identità, la tua storia, le sicurezze e le fragilità.
Ognuna trova nel tempo una dimensione di benessere con la propria acconciatura, ma il vissuto e le tappe della crescita identitaria attraverso i capelli sono molto spesso molto simili. Letteratura e fiction moderne docet.
Secondo la scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie, ad esempio «Alcuni di noi sono contenti dei nostri capelli africani. Non voglio i capelli di una povera ragazza indiana. E confido in Dio di poter comprare prodotti per capelli neri dai neri per una volta. Come ce la faremo in questo paese se non costruiamo le nostre attività e curiamo i nostri business?».
L’attrice premio Oscar Angela Bassett, che ha da poco pubblicato il libro “Crowns: My Hair, My Soul, My Freedom”, dice: «I capelli di una donna nera sono la sua dichiarazione quotidiana al mondo e potrebbero giustamente cambiare forma, a seconda del suo umore, atteggiamento, pensieri e spirito. Per la donna nera, i capelli hanno un potere trasformativo, sia per lei che per tutti coloro che entrano in contatto con lei. I capelli di una donna nera comunicano così tanto di lei in un dato giorno, in qualsiasi momento. Ricci contro lisci, naturali contro stirati, corti contro lunghi, intrecci contro senza tracce, trecce, torsioni e tutto il resto. Nessun’altra donna al mondo può esprimere la sua individualità e creatività attraverso i follicoli che le coccolano la testa come la donna nera. Ed è per questo che c’è un tale fascino per ciò a cui siamo venuti a riferirci come la nostra “corona”».
L’esistenza quotidiana di molte donne black e mixed è scandita dalla gestione della chioma fin dalla tenera età. In Italia, poi. Mettiamola così: noi siamo i nostri capelli. Qualcuno obietterà adducendo motivazioni femministe, intellettuali e sociologiche dicendo che queste sono cose superate. Col cavolo. Anche nel giorno della laurea, metà cervello pensa alla performance davanti alla commissione, l’altra a come verranno i capelli in foto o se ci sarà umidità nel tragitto. Due argomenti alla pari. Vi sembra superficiale?
Innanzitutto, naturale non è un’opzione, non lo era ai miei tempi e lo è poco ancora adesso.
Sapere di non poter essere esattamente come sarebbe in natura non è di trascurabile impatto nella mente di una bambina, che sia africana e viva in Italia, che sia mista, che sia afroamericana. E con questo concetto cresciamo, ci formiamo.
Avere un diverso incarnato, per così dire, già non rende le cose così facili come appare nelle pubblicità (peraltro spesso inverosimili). Se aggiungiamo una corona vaporosa che sfida, vincendo, la gravità, la questione si fa misteriosa più che interessante (per voi soprattutto). E di quest’ultimo aspetto vorrei parlare, sul resto sarei troppo pesante.
I capelli afro, dicevamo. Inizia tutto a poche settimane dalla nascita quando spunta il primo accenno di morbida peluria. Le mamme e le nonne cominciano a usare la tua testa come impasto della pizza, ti cospargono di olio, iniziano a tirarteli in mini treccine o “polpette” strettissime. Se poi sono mamme bianche (nel mio caso) e non sanno come fare, la sofferenza dello scalpo aumenta e nel peggiore dei casi te li rasano cortissimi (almeno sono comodi).
Alle elementari, dove a scuola bisogna essere in ordine e invece appena sveglia sei una meravigliosa medusa, sei sottoposta ad almeno mezz’ora di detangling (strecciamento) che finisce sempre in trecce tanto strette da trasformarti l’espressione, ti allenano al costante mal di testa e alla sopportazione. Ottimo training di vita.
In questo periodo cominciano anche i confronti con gli altri ragazzini: «come sono i tuoi capelli senza trecce? Ma se li lasci liberi esplodono?». Forse, non li ho praticamente mai visti.
In men che non si dica si passa alla fase dell’adolescenza: i riferimenti, le icone di bellezza black sono lontanissime da te, spesso oltreoceano, e comincia la ricerca.
Tua madre ti dice una cosa, tua nonna un’altra, la tua amica bionda non ne parliamo e tu ti ritrovi a guardare foto in loop, (oggi post su post) e decidi che le vorresti provare tutte. E infatti inizi a provarle tutte. Gli anni Novanta, in cui ho vissuto la seconda decade della mia vita, sono stati un periodo di grande e sprovveduta sperimentazione. Qui in Italia, poi, bisognava davvero avere fantasia ed essere pronte a tutto. Ah, che tempi. Ne sono uscita con i miei capelli ancora in testa per miracolo. Tre scelte: continuavi a tenerli legati, riga in mezzo e aria da suora laica per sempre. Intanto, però, Whitney con la giacca di pelle gorgheggiava con un simil caschetto che ti faceva sentire sua nonna: e così decidevi di provare un parrucchiere blasonato italiano per un taglio moderno che nel frattempo ti usava come cavia per le prime contropermanenti in commercio. Uscivi dal girone dei relaxer pelata, a causa dell’uso selvaggio dei prodotti chimici o del rasoio elettrico che ponesse fine ad una incipiente simil-alopecia.
In alternativa c’erano le prime extensions, a casa di una splendida signora ghanese amica di un’amica: ti cuciva la testa talmente stretta che la notte supplicavi piangendo la tua coinquilina di indossare la torcia da minatore, gli occhiali e tagliare il ricamo perfetto disegnato sul tuo cuoio capelluto. Se poi la mamma era la stessa signora bianca di prima non avevi nemmeno una spalla su cui piangere. Lei sosteneva che aveva sempre sognato capelli come i tuoi provando inutilmente ogni permanente in commercio mentre tu accarezzavi sognante i suoi spaghetti biondi cotti (quindi morbidi). Lentamente cominciavi a sentirti forzatamente consapevole della necessità di una cura costante dei capelli fatta di nutrimento e delicatezza, di attenzione alle loro risposte, perché non tutte le chiome ricce (allora si diceva grette) sono uguali.
Come dicevo il percorso è lungo, anzi dura tutta la vita. Arriva la metà degli anni Novanta, quelli della ricerca dell’impacco perfetto, della maschera miracolosa, di qualunque sostanza solida o liquida che li renda… che li renda… che li renda come? Non si sa, ma belli.
Impacchi naturali e puzzolenti consigliati dalla nonna e dalle zie, prodotti africani, prodotti americani, troppo unti, troppo secchi, troppo chimici. Ore a scaldarti il cervello sotto una cuffia da doccia ad aspettare il risultato perfetto.
Con il nuovo millennio parte una nuova era anche per la cornice della nostra testolina: la stiratura all’idrossido di sodio, idrossido di ammonio e guanidina, e poi la “rivoluzione”: le stirature alla cheratina a caldo e derivate, quella brasiliana, e allo stesso tempo l’onda dei rigurgiti dell’Afro pride!
Due strade. Tutte al naturale? Ovvio, tesoro, se non torni naturale, con una corona di ricci naturali in testa non sei seria. E comincia per molte la transition, che non è il passaggio a una nuova dimensione, ma quasi.
Primo: ti cospargi il capo di cenere e supplichi gli antenati di perdonare tradimento e ubris. Scherzo, ma la scelta è altrettanto “intensa”: tagli i capelli corti, quelli stiracchiati negli anni, togli treccine, dreads e riparti da zero! Figo no? No. A me la pallina non viene. Sono mista. Ma mi dico: devo provarci. E ci provo: taglio i capelli corti, li curo come posso. L’effetto è solo disordine: la mattina mi sveglio e il boccoletto è schiacciato e moscio. Sono creativa, è estate, perciò un modo per ravvivarli c’è. Ma d’inverno?
Se non hai un super kynky (cioè ricci molto stretti), non hai ragione di esistere. L’umidità arriccia il liscio, ammoscia il riccio. E se il riccio non è deciso, muore. L’umidità, anche l’accenno più impercettibile, distrugge ore di lavoro e l’animo più esuberante. C’è stato un periodo, nei primi anni duemila, in cui io avevo i capelli lunghi e andavo una volta ogni quindici giorni da un parrucchiere italiano per farmi la piega liscia. I commessi se la ridevano: ogni volta, durante o appena finita la seduta, il cielo si annuvolava e cominciava la pioggia, pioggerellina, temporale, grandine, nevischio o solo un terribile cielo coperto e quindi UMIDO.
La sensazione è che capiti appositamente per scontrarti contro la tua felicità. Che sia ingiusto e che non solo i pianeti, ma anche tutte le forze dell’universo ce l’abbiano proprio con te, te che volevi solo avere per una sera i capelli lisci, morbidi, sexy come quelli di Barbie. E sfido qualunque donna black a dire che non abbia mai voluto, anche solo per un giorno, ondeggiare la testa come nelle pubblicità degli shampoo, e sentire la gravità, il concetto fisico intendo, dei capelli lisci che ti accarezzano la faccia e si muovono con te. Sì, perché i capelli afro si muovono se sono mixed, ma se sono proprio kynkyssimi (riccissimi) no. Quindi niente, mani tra i capelli, corti o lunghi, quel gesto che fa così “sono figa, consapevole e disinvolta”. Non dura per tutte la passione naturale, dipende da età, texture appunto e molti altri fattori.
Perciò ci ributtiamo, in un numero nutrito, nel girone delle nuove stirature ma soprattutto delle extensions e delle parrucche. Un mondo incredibile, per alcuni disgustoso e immorale, per noi ragazze black, un sogno.
Li vuoi alla Beyoncé di Irreplaceble? Si può fare. Come Rihanna nel periodo rosso fuoco, li vuoi come Naomi o Halle Berry più wild style? Preferisci un rosa baby o il biondo bianco di Nicky Minaj? O un afronatural in stile Erykah Badu, Janelle Monáe o Esperanza Spalding, icone dello stesso paese in cui si continua a dibattere del Crown Act nei singoli Stati che solo ora lentamente si aprono alla libertà di portare capelli naturali sul luogo di lavoro? Si può fare.
I media, le cronache e i social mostrano come le donne black stiano annunciando la loro nuova normalità, indipendentemente dallo stile o dalla consistenza, se indossano trecce, extension o dreadlock.
Ma che fatica. Che fatica.
Dicevo. Da piccole siamo vittime di tutte le mani che ci passano vicino, a scuola usano la massa come porta matite, le amiche ci chiedono cose assurde tipo «ma i tuoi capelli si bagnano?» E a quarant’anni già ci preoccupiamo di come ci pettineranno nella cassa (no joking).
Noi donne Afro passiamo lo stesso tempo a pensare e occuparci dei nostri capelli di quello che le altre dedicano ai peli e ai figli. E se mettiamo la cuffia per dormire anche in vacanza con le amiche del Liceo beh, ci è voluta Viola Davis a darci la benedizione, non nasconderci e farci sentire ok. Amen.
Una ricerca continua di un look che incornici un’identità che era minoritaria, poi una battaglia, è ora una bandiera per tutte. Un po’ scioccante e un po’ ridicolo. Per noi è sempre stato un argomento serio, serissimo e ci ha abituato all’empatia, all’attesa, al rispetto dei tempi e necessità delle altre donne.
Ma esiste un luogo sicuro. Oggi anche in Italia. Prima ci si approfittava del viaggio, della visita o della vacanza nei paesi di origine o di cultura e identità black, ora le piccole isole felici sono anche qui, basta cercare la propria.
Il salone del parrucchiere. Senegalese, Ghanese, Brasiliano, Cubano, Dominicano, a ognuna il suo.
Lì si entra abbandonando ogni difesa. Solo lì c’è la donna che se non avete avuto in famiglia avete sognato sempre, la donna che vi renderà bella, consapevole, sicura e che vi prenderà per mano nel percorso della scoperta e riscoperta della vostra immagine.
Quando oggi esco per andare a farmi i capelli, mia figlia mi dice: «ah ok, se vai dalla Rose ti rivediamo stasera». Vero, perché dalla Rose entro in una dimensione parallela. Entro, parlo, mi sfogo, mi aggiorno, rido, Rose mi offre da mangiare, lo dà anche al bimbo della sua amica che si rotola sul divanetto aspettando la madre. Rose mi insegna il Brasiliano, cantiamo, piangiamo e preghiamo, arriva un’altra amica, una trans che ora vive a Parigi e ci aggiorna sulle sue avventure e gli acciacchi dell’età, ci insegna come essere veramente femminili e come trattare gli uomini. Cullo il bambino di una ragazza senegalese sposata con un italiano, che ha preso le ferie al lavoro per sistemarsi i capelli. Provo un olio miracoloso creato da un’amica angolana. Tutte danno la loro opinione sul mio trattamento, sulla piega o l’extensions che stai scegliendo, mentre guardo ammirata una giovane modella che si fa fare i dreadlocks. Non c’è confusione ma vita, non c’è maleducazione o greve curiosità ma condivisione.
Ognuna ha la propria Rose, prima o poi.
Questa non è la fine della storia però. Non è la fine della storia e non è tutta la storia, ma un assaggio di un mondo infinito che ruota intorno a un filo, più di uno, una matassa umana e sociale che si districa solo con dedizione, cura e pazienza.
Scusate, mi squilla il telefono.
«Sì?»
«Esci?»
«Non posso, mi sono fatta la pulizia del viso e ho i pori dilatati, in più ho fatto la ceretta ai baffetti e sono tutta arrossata»
(Rido) «Arrossata, ah»
«Che cavolo ridi, Ward»
«No nulla, figurati, capisco. A domani».