Samir Bantal, direttore di AMO, racconta cosa vuol dire concepire uno spazio retail al giorno d’oggi
Sotto le ripide volte di un’architettura gotica, nell’oscurità della notte timidamente illuminata dalla luna, un anziano signore si inginocchia a terra e alza lo sguardo come al cospetto di una visione. Di fronte a lui, un pesante piedistallo metallico sorregge una misteriosa sostanza chimica contenuta all’interno di un recipiente da laboratorio da cui spande una luce calda e intensa proiettando sul suo volto ombre nette e taglienti: è un alchimista e ha appena capito di aver scoperto il fosforo. A raccontare l’episodio è il pittore inglese Joseph Wright of Derby nell’opera The Alchemist Discovering Phosphorus del 1771. Un dipinto ad olio affascinante e suggestivo che, a più di due secoli dalla sua realizzazione, si trova ad essere il sorprendente punto di partenza per la progettazione dei nuovi retail store di casa Stone Island. Ad occuparsene è stato OMA/AMO, lo studio fondato da Rem Koolhaas, con sede a Rotterdam, tra i più rilevanti nella scena contemporanea in termini di architettura e design, a cui il brand italiano fondato nei primi anni Ottanta da Massimo Osti, raggiunto subito dopo da Carlo Rivetti, ha deciso di rivolgersi affinché potesse tradurre il proprio DNA, fatto di ricerca e sperimentazione, tecnologia e sviluppo, nella forma di spazi fisici. Sviluppati a partire dal 2022 e già presenti nelle città di Chicago, Monaco e Stoccolma questi spazi si presentano non solo come contenitori capaci di riflettere l’identità del marchio e dei propri prodotti, ma anche come hub di connessione per la community internazionale del brand.
Per capire cosa può unire un dipinto di fine Settecento con uno store Stone Island tra i più innovativi di sempre e come sia possibile progettare spazi retail dedicati ad esperienze offline in un periodo dove tutto si consuma in rete, ci siamo rivolti direttamente a Samir Bantal, direttore di AMO dal 2015 nonché eclettico creativo che vanta collaborazioni con figure del calibro di Virgil Abloh.
La misteriosa figura di un alchimista funge da guida e fonte di ispirazione per lo sviluppo del progetto che Stone Island ha chiesto a te e al team di OMA/AMO di ideare. Da dove nasce questo riferimento e perché proprio l’alchimista?
Quello dell’alchimista è un concept che mi ha colpito sin dall’inizio del progetto, perché estremamente legato alla pratica produttiva e al background di Stone Island. Quando abbiamo iniziato la nostra conversazione, infatti, ho subito chiesto di visitare la fabbrica, siccome avevo sentito parlare di una “cucina” dove materiali e colori diventavano protagonisti di vere trasformazioni. Così sono andato a Ravarino, un piccolo paese nel modenese, dove è iniziato un viaggio investigativo, a partire dalla tintoria e dallo spazio dedicato alla catalogazione delle ricette cromatiche. È un archivio dove si lavora sui materiali e sui colori, dove si raccolgono centinaia di campioni e tutti i passaggi che consentono di arrivare al risultato finale. È qui dove ho scoperto che Stone Island sceglie i colori prima di iniziare a produrre gli abiti e solo dopo si occupa dell’effettivo design, come se si sviluppasse prima il sentimento di un capo e solo successivamente gli venisse data la forma attraverso un disegno. A quel punto ho capito che Stone Island non solo possiede un’eredità di prodotti, ma anche un vasto patrimonio di conoscenza sui materiali: più che designer, ciò li rende degli alchimisti contemporanei. Sono capaci di creare un tessuto che sembra metallo, ma in realtà è poliestere e, allo stesso tempo, un tessuto che sembra poliestere, ma in realtà è metallo.
E voi siete riusciti a tradurre questa metodologia originariamente legata al settore fashion, nello sviluppo dei materiali che oggi è possibile trovare negli interni degli store Stone Island, come se foste diventati voi stessi degli alchimisti.
Sì, abbiamo voluto rielaborare i materiali facendoci portatori di questo modo di pensare e abbandonando ciò che succede solitamente, ovvero la visione di un catalogo di materiali, la scelta di alcuni e la loro applicazione in uno spazio. Normalmente il lavoro è così concluso. Ci siamo chiesti, invece, se ci fosse stato un modo per prendere qualcosa di estremamente ordinario e presentarlo in modo completamente diverso. Partendo da questa intenzione abbiamo iniziato a fare dei test. Con il sughero, per esempio, abbiamo lavorato usando la sabbiatura, per ottenere una texture diversa, ma abbiamo anche adottato specifiche tecniche di verniciatura, prima usando il sughero tradizionale e poi quello precotto. Il sughero, infatti, si è dimostrato l’elemento chiave dell’identità del progetto.
Ciò rappresenta chiaramente la filosofia progettuale attraverso cui OMA/AMO da sempre affronta i più disparati progetti, indipendentemente dalla tipologia di lavoro richiesto o dal settore di destinazione: come riuscite a essere così interdisciplinari e ad avere sempre la capacità di portare alla luce idee innovative e inedite?
Cercando di non essere mai troppo specialisti in ciò che ci viene richiesto. Solo in questo modo puoi trovarti nella condizione di non sapere e il non sapere è il più autentico punto di partenza per qualcosa che devi effettivamente scoprire in un breve lasso di tempo. Questo ti consente anche di essere più aperto e di porre domande che un esperto non farebbe mai, definendo così nuove direzioni e possibilità. Uno dei primi progetti a cui ho lavorato in AMO, per esempio, consisteva nel progettare un cellulare. Era il 2005 e ci avevano chiesto di sviluppare un telefono per il mercato giapponese proponendo delle innovazioni senza porci alcun limite. Era molto prima che l’iPhone esplodesse: io avevo un Nokia in cui l’applicazione più eccitante era Snake, per intenderci. Lo stesso è accaduto quando abbiamo avuto i primi contatti con Prada, a cui abbiamo proposto di sviluppare un’identità che al tempo chiamavamo virtuale e che ora tutti hanno attraverso i social media. Volevamo che il brand si sviluppasse soprattutto online anche se si pensava che nessuno avrebbe mai comprato prodotti su internet, men che meno borse da migliaia di euro. A volte il tempo dimostra che le cose vanno molto più velocemente di quanto ci si possa aspettare e per questo mi sembra che la cosa più stimolante sia provare ad essere una bussola che indichi una direzione, piuttosto che nutrire la speranza di giungere a soluzioni univoche.
Oggi, infatti, sembra che la dematerializzazione dello shopping abbia preso il sopravvento. Questo perché siamo totalmente circondati da esperienze online sia in termini di spazio che di tempo. Tuttavia, con Stone Island avete deciso di lavorare su una piattaforma fortemente offline, sviluppando nuovi contesti e ambienti. Mi chiedo quale possa essere il ruolo dei retail store al giorno d’oggi: da quale prospettiva è stimolante lavorare su questo tipo di progetti?
I negozi fisici stanno dando una risposta paragonabile a quella della carta stampata nel momento in cui è avvenuta la rivoluzione guidata dalla diffusione di internet. All’inizio, tutti sostenevano che i tradizionali mezzi di informazione sarebbero scomparsi, mentre si è dimostrata non solo la loro sopravvivenza ma anche un aumento della propria rilevanza e credibilità. Penso che ciò stia accadendo analogamente con gli store. Un negozio fisico non verrà mai sostituito e annullato dall’online, perché possiede un significato diverso e dovrà svilupparsi in modo parallelo alla sua controparte digitale, sovrapponendosi in modo che, a un certo punto, si potrà vivere l’esperienza online e offline allo stesso tempo.
Tuttavia, quello che trovo prezioso di un’esperienza offline è che ignora la velocità: si tratta di andare in un negozio e passarci del tempo immersi a conoscere i tessuti e quello che possono trasmettere. Credo che non abbiamo ancora raggiunto il punto di arrivo di questo processo e sono convinto che il rapporto tra online e offline dovrà svilupparsi ancora di più, iniziando a proporre output diversi legati maggiormente alla ricerca e alla progettazione, affinché non siano solo guidati da aspetti fisici e concreti, ma soprattuto dal pensiero e dalla riflessione. In realtà, ciò è esattamente quello che facciamo con AMO, cercando di rispondere stimolando punti di interesse lontani da ciò che risulta canonico.
Pensando alla vasta esperienza che OMA/AMO ha maturato nella progettazione del retail store design, è impossibile non citare il Prada Epicenter di New York risalente ai primi anni 2000. In che modo questo iconico progetto ha gettato le basi per quelli che lo hanno succeduto?
Più che per il risultato estetico e fisico dello store, ritengo che sia stata la dimostrazione di un modo diverso di approcciare un progetto, poiché lavorare su quel negozio ha portato a una ricerca molto più ampia sullo shopping. La proposta consisteva nello sviluppare qualcosa di dinamico e fluido, piuttosto che di fisso e statico: si trattava di uno spazio capace di trasformare i propri connotati e la propria funzione. E penso che ciò sia un elemento ricorrente nella pratica dello studio, dato che ci troviamo spesso ad essere affascinati da una condizione di maggiore instabilità. La stabilità è certamente un concetto interessante, ma è dall’instabilità che puoi trarre il movimento e l’innovazione. Ciò che personalmente trovo rilevante è capire in che modo progettare l’instabilità, come ho cercato di fare lavorando sullo store di Off-White™ a Miami. In quel caso l’idea è stata quella di rendere la facciata dell’edificio un piano dinamico e libero di essere spinto fino al proprio retro, come se la strada entrasse nel negozio e definisse un nuovo spazio in cui ospitare installazioni artistiche durante Art Basel Miami, oppure esibizioni di danza. Definire un punto di vista diverso sull’architettura è l’approccio sperimentato per la prima volta con il Prada Epicenter di New York, ma ha presto influenzato numerosi altri progetti che sono venuti dopo.
Pensi che ci siano delle analogie con il progetto elaborato per Stone Island?
Sì, anche se in maniera diversa. Il progetto per Prada ha fatto cambiare il modo in cui pensare ai negozi fisici in termini di tipologia architettonica, ma il vero fattore comune penso sia il considerare la community come parte integrante dell’equazione. Gli appassionati del brand si recano negli store e cercano qualcosa che vada oltre la semplice esposizione delle collezioni. È per questo che negli spazi progettati per Stone Island abbiamo inserito un grande schermo sospeso e dinamico sul quale non solo vengono proiettati materiali relativi al branding, ma anche contenuti specificamente sviluppati per raccontare la cultura su cui si fonda Stone Island. Una cosa davvero interessante che mi ha detto Carlo Rivetti durante i nostri incontri è che considera il brand come una vera e propria religione, dove le persone che la seguono si conoscono, si confrontano e costituiscono un gruppo. È per questo che per lui i negozi devono essere dei luoghi paragonabili a chiese, dove recarsi regolarmente a vedere ciò che succede con il passare del tempo. Da qui nasce l’idea di popolare gli spazi degli store utilizzando degli altari, definendo così specifiche aree dedicate a singoli pezzi d’archivio o ad intere collezioni.
Avendo lavorato a progetti tra loro incredibilmente differenti durante la tua carriera, quale pensi sia stato tra tutti il settore più complesso e sfidante nel quale progettare?
Questa è davvero una domanda difficile, perché ritengo di essere onorato di poter lavorare su progetti così diversi tra loro e su scale così distanti. Adesso, per esempio, sto lavorando su una strategia che riguarda un intero Paese ed emergono interrogativi che non mi ero mai posto prima: come si definisce l’identità di un Paese? Come si pianifica un Paese e come lo si preserva? Come lo si può preparare a un futuro più sostenibile?