Palcoscenici e scenari sono fondamentali affinché uno spettacolo riesca e la moda, essendo tale, necessita di quel mondo fittizio che dura all’incirca una ventina di minuti fino alla fine della parata di modelli e, talvolta, fino all’after-party. È proprio a causa di quella ricerca dello spettacolare che si appoggia l’assurdo, il quale prende il sopravvento e stravolge l’idea di vestito ed accessorio. Non è un caso, infatti, che la maggior parte dei capi d’abbigliamento che si vedano in passerella non siano venduti poiché scomodi ed impossibili da indossare nella quotidianità; le borsette, le sneakers, gli occhiali da sole e le t-shirt, invece, trainano l’economia di un brand, senza oscurare l’identità del marchio che va oltre il guadagno, o almeno ci prova. Ci sono anche delle eccezioni e il caso più noto è quello di McQueen, che non è più ricordato dal grande pubblico – ovvero coloro che non sono propriamente appassionati – per la qualità e la bellezza, bensì per delle scarpe ginniche ormai detestate.
Parlando di spettacoli, l’ultima collezione di Loewe è un caso interessante dato che figure geometriche incompiute, raffigurazioni simpatiche (o meno, dipende dall’occhio), deformità, astrattismi e iper-semplificazioni ci riconducono ai grandi del cubismo, dell’astrattismo e dell’impressionismo, consentendoci di respirare novità non tanto nuove ma più che altro mistificazioni di una realtà noiosa che, finalmente, si cerca di rendere più bella. Per Schiaparelli, invece, si potrebbe parlare di una follia paragonabile a quella di Salvator Dalí – di cui Elsa Schiaparelli non a caso era grande amica. Non starà la moda cercando di superare sé stessa e creare qualcosa che non sia un vestito? Questo l’ha sempre fatto però. Come successe per gli artisti dei primi del ‘900, alcuni fashion designer – ovvero coloro che hanno sostituito il pittore o lo sculture in una società basata sugli oggetti che si possono aver – sembrano infatti abbondare la convenzionale idea di moda.
L’assurdo riesce anche ad andare oltre il capo in sé e sfocia nel luogo in cui si tiene il breve show che milioni di persone aspettano ansiosamente, d’altronde la scelta della location è la più importante: deve rispecchiare il messaggio dell’artista senza svelare troppo, lasciando sempre qualche simbolo alla libera interpretazione. I grandi come John Galliano hanno basato intere carriere sull’attesa della loro prossima idea bizzarra e proprio quest’ultimo per l’Haute Couture SS98 firmata Dior, di cui era a capo da un paio d’anni, decise di mettere in mostra le sue creazioni all’Opéra Garnier di Parigi, scelta coerente con l’estetica dei balletti russi e con la musa da lui scelta: la marchesa Luisa Casati. Valletti, candelabri e lunghe scalinate scese da abiti ottocenteschi resero quella serata alla pari di una prima a teatro, inaugurando il sodalizio tra Galliano e LVMH, il gruppo che tutt’oggi detiene la maison francese.
Non serve però andare tanto indietro, perché la sfilata di Chanel by Karl Lagerfeld per la FW14/15 fu ambientata addirittura in un supermercato, ricostruito ad hoc ovviamente, in forte contrasto con i completi classici ed eleganti ereditati da Mademoiselle Coco, che possono essere tutto fuorché qualcosa di kitsch; poco dopo Karl decise invece di adattare il proprio estro creativo a un banale aeroporto. Perciò non si può parlare solo di coerenza, ma anche di incoerenza, sempre utile a contestualizzare e attualizzare una sfilata che erroneamente si crede essere un semplice evento. La moda si può ritenere arte proprio grazie alla sua capacità di penetrare più ambiti possibili e fare meglio di tutti gli altri, talvolta improvvisandosi una scienza al pari della medicina come ci insegna Gucci che per la sua FW18/19 ha scelto di ricreare una sala operatoria dotata allo stesso modo di ansia e terrore.
Sebbene prima degli anni 2000 fosse abitudine assistere a passerelle che assumevano altre sembianze, la magia del fashion system era andata perdendosi e i calendari delle FW si sono sempre più riempiti di esperienze che avevano caratteri in comune con i grandi magazzini piuttosto che con il teatro e il cinema. Un’evoluzione inaspettata e demoralizzante specialmente per coloro che erano abituati a Mugler o Alexander McQueen, creativi a tutto tondo e non solo fashion designer, dato che curavano nei minimi dettagli le modalità per rivelare i propri prodotti.
Un cambiamento, però, è avvenuto con l’arrivo di Demna a Balenciaga. Prima la bufera di neve con espliciti riferimenti all’attuale situazione in Ucraina e alla sua infanzia da fuggitivo, poi persone tutte uguali a causa di maschere in pelle e anonimi abiti borghesi che camminano velocemente tra i corridoi della borsa di Wall Street. Come succede per tutto nella vita, il grande rivoluzionario che sta stravolgendo una delle case di moda più longeve di sempre ha dato inizio a un vero e proprio trend tra i brand del lusso: la faraonica sfilata di Dolce&Gabbana a Venezia, lo spettacolo a cielo aperto di Gucci tenutosi ai piedi di Castel del Monte in Puglia e infine Jacquemus su un’isola in pieno oceano, abitata unicamente da zattere e palme.
Tuttavia questi eventi mastodontici potrebbero anche essere un escamotage per colmare il vuoto. È noto a chiunque che ci sia una crisi di inventiva, la quale porta a riproporre ciò che andava vent’anni fa senza adattarlo alla contemporaneità e ai bisogni attuali, e spostare l’attenzione del pubblico su effetti speciali e lustrini potrebbe aiutare momentaneamente, almeno fino a quando non ci saranno altri fuochi d’artificio e cose sensazionali che possano salvare l’economia. D’altronde questo lo vediamo tutt’oggi nel cinema e spesso capita anche ai registi di sostituire il contenuto con la cornice. In questo modo il problema non viene risolto, bensì viene tamponato e ci ritroviamo a vedere un circo ideato da Jeremy Scott per Moschino: colmo di contorsionisti ma privo di innovazioni.
La polemica non aspetta molto a dominare Twitter e Instagram, e ci si scaglia contro coloro che mettono in scena questi baracconi facendo viaggiare migliaia di addetti ai lavori e non, causando inquinamento e consumismo all’ennesima potenza. Il post-covid, infatti, ha portato con sé grandi contraddizioni tra cui la risposta del sistema moda a due anni che hanno privato di show all’altezza. Non è un caso che all’estrema semplicità e riservatezza dovuta alla pandemia si stia preferendo lo sfarzo che ha caratterizzato la moda degli anni gloriosi e ricchi, economicamente e artisticamente. Sono la nostalgia e il senso di ribellione proprio dell’uomo ad averci portato a un ritorno massiccio di eventi spettacolari, apprezzabili o meno ma pur sempre coinvolgenti ed efficaci nell’attrarre nuovo pubblico e nel creare contenuti per i social media, i quali richiedono obbligatoriamente qualcosa di unico e insolito. Internet silenziosamente si è introdotto tra noi e il nostro stesso gusto, stravolgendo il concetto di bello e interessante e portandoci a cercare continuamene qualcosa di diverso ed emozionante. Una sorta di tensione verso un assoluto ignoto.
Questo trend, però, è appena iniziato e ne vedremo di show, experience per influencers e abiti assurdi che, forse ci piaceranno anche.