Anche tu conosci i PARISI e non lo sai

Trovare la genuinità nelle persone non è così scontato. Ci sono molteplici strati che ci differenziano l’uno dall’altro, strati di difesa, di pensiero, che in qualche modo ci distanziano da chi abbiamo davanti. Si tratta di un processo umano che deriva dalle esperienze, positive o negative, e che ci porta, chi più chi meno, a inserirci in una bolla che allontana, perché specifica rispetto a ciò che pensiamo di essere. E ancor più raro è condividere il nostro spazio, fisico e mentale, con chi abbiamo intorno. Dipende tutto dalla quantità di muri che abbiamo tirato su. 

I PARISI, duo di produttori di Salerno ma che da anni vivono e lavorano nel contesto londinese, di strati non ne hanno, ed è incredibile scoprire che il loro successo – inteso come realizzazione personale – sia stato guidato da una serie di connessioni genuine nate in primis dal loro modo di essere, totalmente aperto e positivo rispetto a ciò che la vita propone. Dalle periferie di Salerno sono arrivati a lavorare con Fred Again.., Tom Misch, Ed Sheeran, Swedish House Mafia e tantissimi altri, tornando a presentarsi all’Italia con un Grammy tra le mani. Tutto ciò può sembrare assurdo, ma non lo è.

Cresciuti insieme al padre musicista, Marco e Jack, fratelli con solo 3 anni di differenza, sono stati travolti dalla passione per la musica sin da bambini. La casa piena di strumenti era il loro parco giochi. «Nostro padre era sempre al pianoforte e io ho iniziato che avevo appena 3 anni. Ho l’orecchio assoluto e sapevo suonare qualsiasi record avesse. Era il mio gioco preferito», mi dice Marco. Se da un lato il fratello più grande si dilettava al pianoforte, il fratello più piccolo, Jack, si butta invece sulle percussioni, forse per andare contro corrente, fare – letteralmente – più confusione. Farsi sentire.

«Io ero quello armonico, melodico», afferma Marco, «lui era tutto ciò che è ritmico. Ed è ciò che facciamo ancora adesso dopo 30 anni». Dal salotto di casa sono poi passati al negozio di strumenti musicali che il padre aveva aperto. Il parco giochi si faceva sempre più grande, e così sono arrivati – giovanissimi – a essere polistrumentisti. In adolescenza avevano già imparato tutto quello che c’era da sapere sulla musica. «Un giorno mio padre viene da me e mi dice che è il momento di fare il passo avanti, perché gli insegnanti mi avevano già dato tutto. Avevamo 14 anni».

Foto: Enrico Rassu

Se fino a quel momento la vita dei due aveva seguito un percorso che sembrava scritto, è stata poi la rottura degli schemi a far cambiare tutto. La ribellione di Jack, la stessa che lo ha portato al principio a prendere in mano le bacchette, un giorno gli ha fatto dire «non voglio più suonare la batteria». 

«Ho iniziato ad ascoltare musica dance, house, da discoteca, e dai 15 ai 19 anni ho fatto il dj. È così che ho scoperto il mondo della produzione musicale. Per la prima volta ho detto, voglio creare io musica. Quando suonavo alle feste Marco mi prendeva in giro dicendomi di tornare a studiare (ride, ndr)».

Mentre Jack volava dall’altra parte del mondo per ascoltare gli Swedish House Mafia a Miami, imparando e cogliendo spunti dalla vita reale, dall’altra parte, in Germania, Marco trovava uno strumento che sembrava costruito per le sue mani: la Seaboard di ROLI. Uno strumento totalmente nuovo che, dopo tempo, lo riportava alla possibilità di sperimentare. Se ad oggi è ambita e conosciuta nel campo della produzione musicale d’avanguardia, al tempo ROLI era una società appena nata che aveva l’ambizione di proporre un modo diverso di suonare il piano: non più tasti che si premono, ma che letteralmente si toccano, andando oltre la singola pressione di un tasto rigido, ma indagando con le dita tutto intorno su una tavola gommosa.

Il movimento da fare con le dita per suonarla è particolare e per niente intuitivo, ma per deformazione professionale Marco lo aveva sempre fatto sui tasti rigidi del pianoforte che di certo non lo accoglievano.

«Ho incontrato Jordan Rudess, un pianista pazzesco, che stava portando con sé questo prototipo di tastiera. Mi dice che vuole farmelo provare e mi invita a Londra per introdurmi al CEO di ROLI, al tempo piccolissima, erano 15 persone». Marco va a Londra e quello strumento, praticamente sconosciuto, sapeva già suonarlo. «Il CEO arriva nella stanza e mi dice “who are you? Perché la sai suonare?”, c’erano solo tre persone che sapevano farlo». Da quel giorno il primo dei due fratelli inizia a fare avanti e indietro tra Londra e Salerno, aiutando la società a costruire effettivamente quello strumento che al tempo era un prototipo dal costo di €9000. 

«Il CEO alla fine mi ha pregato di trasferirmi a Londra e mi ha fatto un’offerta che non potevo rifiutare». Jack lo segue, e ROLI alla fine prende anche lui: avrebbe fatto la stessa cosa del fratello ma con un nuovo pad che l’azienda stava sviluppando. 

«Noi eravamo i dimostratori, dovevamo far conoscere lo strumento. Nove volte su dieci, le persone che incontravamo ci chiedevano di lasciargli i contatti per introdurci a qualcuno, per puro piacere dell’unione e della conoscenza. Noi eravamo convinti che volessero qualcosa in cambio, invece non era così», affermano come se fossero tuttora stupiti. «Con ROLI abbiamo girato il mondo, siamo stati in studio con Pharrell, Timbaland e altri che ci sognavamo. Il pro era ritrovarsi in quella stanza, il contro era che non potevamo promuovere noi stessi, rappresentavamo l’azienda». Poi è successo che sono stati gli altri a fare un passo verso di loro, uno in particolare. «Un giorno will.i.am ci chiese di tornare a fare musica con lui perché era a Londra per lavorare all’album». 

A Londra la mentalità è molto diversa da quella italiana, e lo è per un aspetto in particolare: l’essere aperti nel condividere, nel creare connessioni tra le persone per il puro e semplice piacere di vedere che cosa può uscirne. È così che si crea una rete di nodi e intrecci di cui tutti alla fine si sentono parte, perché anche loro – con una parola o un gesto – hanno contribuito a qualcosa di più grande. È come se, al contrario nostro, riuscissero a vedere la big picture. «È successo più in 4 mesi a Londra che in 15 anni in Italia», mi dicono. «In Italia ci siamo dimenticati che l’unione fa la forza. Quando unisci persone talentuose, esce qualcosa di eccellente», afferma Marco. «Dal 2016 al 2019 siamo stati chiusi in casa a Londra a lavorare, a studiare gli strumenti e tutte le piattaforme necessarie per produrre, creando pezzi che non sono mai usciti. Dovevamo imparare, perché quando poi arriva l’occasione devi essere pronto».

E l’occasione poi è arrivata. «Facemmo un meeting con una label, e la persona con cui parlammo – che ad oggi è uno dei nostri mentori – ci disse che a 3 minuti a piedi c’era uno studio di un producer dal nome Fred Gibson». Colui che ora tutti quanti conosciamo come Fred Again..

«Due giorni dopo siamo in studio con Fred, ci dice che sta lavorando a “No.6 Collaborations Project” di Ed Sheeran e ci chiede di lavorare con lui. Noi, da bravi italiani, abbiamo pensato “figurati se questo ci richiama”. Tre settimane dopo ci chiede di andare da lui e ci dà carta bianca sui pezzi. Lavoriamo come musicisti su 4 brani, e come se non bastasse ci dice “ma voi sapete che ci potete guadagnare da questo brano?”», «non lo sapevamo, non avevamo idea di come funzionasse», dice Marco, «allora ci presenta suo fratello, Alex, il suo manager e iniziamo a stringere un rapporto di amicizia con Fred. Alla fine nel 2020 ci siamo ritrovati a co-produrre con lui il brano “Afterglow“ di Ed Sheeran e ci ha cambiato la vita. Il giorno dopo avevamo i DM pieni di manager che volevano proporci un contratto».

Da allora i PARISI trovano effettivamente una propria strada nel mondo musicale, iniziando a fare ciò per cui si erano allenati per tutta la vita. «La cosa più importante è stato sicuramente il rapporto con Fred, abbiamo lavorato su “Actual Life” in una casa sul mare in una piccola città del sud dell’Inghilterra. Eravamo in macchina a riascoltarlo, e dicevamo che – seppur fosse un album spettacolare – era forse leggermente di nicchia. Ultime parole famose, con quel disco Fred è esploso».

Il loro rapporto si è poi consolidato, insieme hanno fatto “Actual Life 2” e “Actual Life 3”, ed è con quest’ultimo che, proprio quest’anno, si sono portati a casa il Grammy. «Gli italiani che hanno vinto un Grammy sono molto pochi. Nella musica elettronica non era mai successo, solo Benny Benassi ne ha vinto uno per un remix. Siamo immensamente fieri di questo». 

«Se nel 2007 a Salerno qualcuno dal futuro ci avesse detto che avremmo prodotto tre album di Fred Again, i pezzi di Ed Sheeran, lavorato con gli Swedish, Anyma, vinto un Grammy, suonato al Tomorrowland con un nostro progetto tra le mani, non ci avremmo mai creduto».

Già, gli Swedish. Il sogno di Jack di conoscerli si è avverato perché Fred Again.. un giorno ha deciso di fargli una sorpresa. «Eravamo a cena con Fred Again e Ed Sheeran», mi racconta Marco, «e a un certo punto Ed dice a Jack, “allora sei contento che vai a conoscere gli Swedish?”, Fred si è visto rovinato il piano: stava organizzando il viaggio a sorpresa per andare in Svezia a lavorare con Sebastian Ingrosso che lo aveva contattato», mi raccontano.

«Sono tra le persone più splendide che abbiamo mai conosciuto. Fantastiche, familiari. Eri ospite di famiglia. Siamo stati tre gironi, i primi due abbiamo fatto “Turn On The Lights again..” e “Calling On”. E in quelle giornate fortuna ha voluto che siamo diventati amici e da allora lavoriamo insieme e produciamo vari dei loro brani. Il 30 giugno, ad esempio, apriremo il loro concerto in Italia a Lucca».

La conversazione va avanti per ore, perché perdersi tra i racconti dei due fratelli di Salerno è facilissimo. La costante insoddisfazione e il profondo tormento che spesso e volentieri caratterizza l’indole degli artisti in loro manca quasi completamente. «Un ragazzo una volta ci ha detto che stiamo vivendo il sogno di almeno altre 20 persone, quindi dobbiamo essere grati. Non c’è neanche il tempo di essere dannati per qualcosa». Nel loro modo di essere artisti, Marco e Jack sono persone molto pragmatiche. Vivono d’azione e decisione, entusiasmo, senza lasciarsi prendere da quell’over thinking che spesso toglie dal flusso di cose che può portarci ovunque. 

«È importante essere sicuri di sé, soprattutto quando si lavora con un certo tipo di persone. Fred Again.. è senza alcun dubbio il produttore più talentuoso con cui siamo mai stati in studio. Per visione, idee, scelte, è sempre fuori dagli schemi, e funziona. Ma se in quel momento sta chiedendo consiglio a noi, è perché ha visto qualcosa, quindi perché non credergli?», mi dicono, facendo un ragionamento perfettamente lineare. «Per il pezzo “Bad Habits” di Ed Sheeran ci chiese consiglio e con molta decisione gli dicemmo che determinate cose non suonavano bene. Ciò che è uscito poi spaccava. Con “Delilah (pull me out of this)” ci abbiamo messo più tempo del solito, ma poi è uscito comunque un risultato fantastico. “adore u” ad esempio l’abbiamo fatta in 15 minuti».

Dopo anni di preparazione, proprio come è successo quando Jack ha deciso di smettere di suonare la batteria, è arrivato un altro momento di rottura nella vita dei due: la scelta di essere loro i protagonisti. Loro gli artisti. Ed è con questa volontà, al culmine di una carriera che ha già toccato picchi rilevanti, che si ripresentano all’Italia, non solo per far vedere al mondo da dove vengono, ma anche per essere d’ispirazione per le nuove generazioni.

«Ci saranno migliaia di giovani produttori in una camera da letto adesso, che stanno sognando quello che sta succedendo a noi. Non è facile, ma la nostra storia può ispirare. Siamo partiti da Salerno, un posto al sud Italia dove musicalmente non c’è aspirazione, ma comunque siamo arrivati dove siamo. E se noi possiamo essere presenti nella vita di qualcuno, per consigliare e aiutare, vogliamo farlo».

Nelle loro parole c’è una leggera tristezza di fondo: Londra gli ha dato tanto, ma se avessero potuto raggiungere tali livelli restando in Italia lo avrebbero fatto. «Non avremmo lasciato la nostra famiglia, il tempo non torna indietro».

La musica e chi la vive può portare storie bellissime, avvincenti, appassionanti. A volte talmente assurde da sentirle lontane, a volte umane e così semplici che ci fanno credere che a farcela può essere chiunque. Quella dei PARISI è in primis una storia bella, genuinamente. Ed è al tempo stesso vicina e lontana. Vicina perché deriva da una realtà d’infanzia quotidiana e semplice, perfettamente italiana. Lontana perché si tratta di una prospettiva troppo complessa per essere decifrata e replicata, non ha regole: deriva solo da uno spazio temporale in cui tutto può accadere.

Photo:
Enrico Rassu