Ja Morant sta passando un brutto quarto d’ora ed è solo colpa sua. In ogni caso, le prossime righe non vogliono essere un processo alla stella dei Memphis Grizzlies, non ci interessa capire se abbia sbagliato o meno, dove siano le sue colpe e come la NBA dovrebbe affrontare la situazione, cercheremo solo di capire come queste ultime vicende si leghino (o meno) al suo nuovo ruolo di atleta di punta di Nike.
Facciamo un breve recap. Morant è un giocatore di punta a livello globale, uno dei simboli della nuova generazione NBA, e per questo motivo Nike lo ha reso l’ultimo signature athlete del brand, il primo (e momentaneamente unico) della Gen Z con una scarpa a proprio nome. La Nike Ja 1 è stata appena presentata, uscirà ad aprile e Morant sta guidando i Grizzlies ai Playoffs (al momento sono terzi nella Western Conference) dopo aver dato bella mostra di sé all’All-Star Game. Insomma, tutto sembra andare benissimo. Ma ecco che Ja Morant viene accusato di aver picchiato e minacciato con una pistola un ragazzo di 17 anni, quindi minorenne. Ja non è colpevole (per ora), nessuno si è ancora espresso in merito, ma sappiamo come funziona: le voci negative sono un bel problema, anche prima di concretizzarsi. Ma ecco che, pochi giorni dopo, i Grizzlies perdono una partita e Morant si consola in un locale mostrando una pistola in diretta Instagram. Si sa, portare una pistola in giro non è un crimine se si ha un porto d’armi, ma esporla in diretta non è una scelta particolarmente saggia, specie quando si è un volto noto all’interno di una delle leghe sportive più politicamente attive al mondo.
Ora in molti dentro l’ambiente basket si stanno divertendo a criticare Morant per via delle sue origini sociali. Tanti infatti criticano il fatto che l’ex stella di Murray State venga da una famiglia con entrambi i genitori (non così banale in NBA) e con un passato di scuole private, motivo per cui non sarebbe così hood come ci vorrebbe far credere. Altri invece criticano solo il fatto che Morant guadagnerà oltre 200 milioni di dollari da qui a giugno 2028 solo considerando il contratto con i suoi Grizzlies, senza considerare Nike e tutti gli altri accordi di sponsorizzazione, motivo per cui non dovrebbe mostrare armi da fuoco in giro per non rischiare di perdere i suoi privilegi commerciali. Come da prassi, i Grizzlies lo hanno sospeso, atto naturale considerando la anti-gun policy della NBA e Ja dovrà anche lavorare sul proprio benessere mentale. Lui ha stesso ha dichiarato che cercherà supporto psicologico per affrontare lo stress nella maniera corretta. Se anche voi state cercando di connettere l’essere stressati con il desiderio di mostrare armi da fuoco nelle storie Instagram, beh, non siete gli unici. Ma questo è un discorso che lasceremo a Morant e al suo terapista.
Quello che va considerato è l’impatto che il numero 12 di Memphis e le sue azioni avranno sul suo rapporto con Nike. I Grizzlies infatti hanno un contratto a lungo termine con l’atletica guardia, che peraltro è il loro giocatore chiave, motivo per cui, o Morant sarà colpevole di brutti(ssimi) capi di imputazione, o è poco pensabile immaginarlo lontano dalla squadra del Tennessee. Diverso è il discorso relativo ai partner commerciali. Non solo questi sono per forza di cose legati all’immagine di un giocatore fuori dal campo, ma hanno anche delle policy molto vincolanti nel contesto etico e morale, a maggior ragione negli Stati Uniti, specialmente per chi rappresenta la NBA, una federazione sportiva che è stata estremamente vocale sul discorso della police brutality e delle sparatorie nelle scuole, tanto dal punto di vista dei giocatori quanto da quello dei leader istituzionali.
Il principale indagato è Nike. Non solo lo Swoosh è il principale sponsor di Morant, ma è anche il main partner della NBA. L’azienda di Beaverton, come detto, ha puntato tanto, tantissimo su Ja, una scelta che sembra ovvia ma anche obbligata. Facciamo un passo indietro. Nike è da almeno 20 anni il marchio più rilevante nel mondo del basket, con un dominio assoluto del mercato grazie soprattutto alle sue signature line, le collezioni legate al nome di un determinato giocatore. Parlare di Jordan Brand (da sempre sotto l’ombrello del brand) sarebbe superfluo, ma la divisione Nike Basketball ha potuto contare sui prodotti nati e sponsorizzati insieme a Kobe Bryant, Kevin Durant e LeBron James, tre nomi che persino chi non ha mai visto una partita di basket conosce. Kobe si è prima ritirato, mentre gli altri nomi chiave iniziavano a invecchiare (stessa cosa valeva per gli atleti di Jordan Brand, Chris Paul e Carmelo Anthony in primis), motivo per cui l’azienda made in Oregon si è messa a cercare nuovi ambassador. Per qualche motivo però, ultimamente sembra che diventare signature athlete di Nike sia una maledizione. Andiamo per gradi.
Dopo anni di titoli di MVP, campioni NBA e dominio su tutti i campi, sembra che la magia firmata Nike si sia rotta. Kobe purtroppo è venuto tragicamente a mancare, LeBron James si avvicina ai 40 anni in una squadra lontana dal giocarsi il titolo, mentre Durant, abbondantemente oltre i 30 anni, è stato recentemente martoriato da infortuni molto gravi e da gestioni dubbie di squadre che non gli hanno più dato l’opportunità di ben figurare nei Playoffs. Contestualmente, la carriera di Paul George, anch’essa segnata da non pochi problemi fisici, ha preso una piega diversa anche per via della sua scelta di ricoprire un ruolo meno “scintillante” al fianco di altre stelle come Kawhi Leonard a Los Angeles, perdendo parte dei riflettori che lo hanno reso una star internazionale. Il caso più eclatante è però quello di Kyrie Irving. L’ex stella dei Nets, ora a Dallas, si è reso protagonista di uscite senza controllo che lo hanno associato a definizioni non esattamente lusinghiere: irresponsabile, terrapiattista, no-vax, razzista, antisemita, e via così. La situazione è arrivata a un punto tale che Irving si è visto annullare il contratto con Nike che a sua volta ha ritirato ogni prodotto denominato “Kyrie” (per inciso, i più venduti dopo quelli di Kobe, quantomeno se prendiamo come riferimento le scarpe). Irving infatti sta giocando sempre oscurando il logo di Nike con scotch neri o con particolari custom, come ad esempio fatto nell’All-Star Game, stesso evento in cui il suo ex compagno ai Celtics Jaylen Brown ha indossato un modello personalizzato da uno Swoosh in fiamme e una lampante critica alla filiera produttiva del brand. Nel frattempo, lato Jordan, la situazione non è migliore. Chris Paul sfiora i 40 anni, Carmelo Anthony si è ritirato e Russell Westbrook è ormai il fantasma del giocatore che era, costantemente spedito da una squadra all’altra come l’ultimo dei problemi che si preferisce non affrontare. Via il dente, via il dolore.
Ecco quindi che si arrivo a un rinnovo: Jordan firma Zion Williamson e annuncia la sua signature line. Puntualmente, Zion gioca da All-Star ma continua a essere distrutto dagli infortuni, tanto che viene difficile immaginarselo attivo per un’intera stagione NBA, concetto che a oggi sembra una chimera. Arrivano quindi le signature line di Luka Dončić e Jayson Tatum, due giocatori sontuosi che al momento stanno dominando la NBA e sembrano destinati a farlo per lungo, lunghissimo tempo. Ok, quindi lato Jordan ci siamo, forse abbiamo trovato una quadra. Tocca rinnovare anche Nike Basketball però, non è possibile continuare a creare campagne su giocatori i cui figli sono a un passo dal giocare anch’essi in NBA (preparatevi alla campagna dedicata a Bronny James, manca poco). Vero, c’è sempre Giannis Antetokounmpo, ma proprio l’amatissimo greco si è appena messo a sbagliare volutamente tiri pur di catturare rimbalzi e arrivare più facilmente alla tripla doppia statistica, il cosiddetto stat-padding che tanto fa arrabbiare appassionati, addetti ai lavori e altri giocatori, scatenando le antipatie di tutti. Arriva finalmente l’annuncio della Ja 1, una scarpa dedicata a un giocatore che gioca in un mercato piccolo e “simpatico” come quello di Memphis, un ragazzo esplosivo ed entusiasmante come non se ne vedevano dai tempi di Allen Iverson e del primo Derrick Rose, un atleta con un passato da sottovalutato, accettato solo da un college piccolo e subissato dai dubbi di tutti gli addetti ai lavori prima di evolversi in una superstar. Insomma, la storia perfetta. Puntuale come un orologio svizzero, ecco che Morant cerca di autosabotarsi. L’ennesima mazzata a un brand che sembra schedulare tutto al meglio, salvo rimanere azzoppato da un mix di fattori esterni quali infortuni e (soprattutto) le scelleratezze dei propri atleti.
Cosa farà ora Nike? Difficile a dirsi. Come detto, tutta l’attività comunicativa del periodo febbraio-maggio è (e sarà) incentrata su Ja Morant, senza se e senza ma. Il marchio infatti proteggerà senza dubbio l’immagine della stella dei Grizzlies, ma sicuramente lo consiglierà (per usare un eufemismo) di portare avanti attività sociali al supporto di vari enti che distacchino sempre più la sua immagine da quella delle armi da fuoco. Un discorso delicato negli USA considerando quanto la NRA (l’associazione che supporta il libero accesso alle armi da fuoco difendendo il Secondo Emendamento) sia influente a livello politico, specie nell’America post Trump.
Allo sport americano piacciono le maledizioni. C’era quella di Babe Ruth che avrebbe tenuto i Boston Red Sox lontano dal titolo MLB per quasi cento anni, c’era quella di Madden (il videogioco di football americano) secondo la quale l’atleta di copertina non sarebbe mai stato in grado di vincere il Super Bowl. Negli ultimi anni, queste maledizioni sono cadute. Forse ne è nata un’altra: quella che associa l’avere una signature line di Nike a una serie di sciagure, dentro e fuori dal campo. Sperando che Luka Dončić, Jayson Tatum e, perché no, anche Ja Morant, possano sconfiggere anche questa ennesima leggenda urbana.