Barbour, un successo secolare tra nobiltà e collaborazioni azzeccate

Giunta alla quarta stagione, la serie “The Crown” si conferma un caso mediatico capace, tra le altre cose, di suscitare l’interesse degli spettatori verso i codici e le prassi vestimentarie della monarchia inglese; e poiché diverse scene – comprese quelle con la new entry Emma Corrin/Diana Spencer – si svolgono nella tenuta scozzese della regina Elisabetta, a godere della maggiore attenzione sembra sia stata Barbour, label che firma i giacconi cerati esibiti dalla royal family al gran completo. A ben guardare, però, il prestigio di cui gode quest’istituzione dell’abbigliamento made in Uk non deriva solamente dal serial, ma ha a che vedere anche, forse soprattutto, con l’heritage pluridecennale e la solida reputazione in materia di outerwear, rafforzata di recente da alcune collaborazioni particolarmente azzeccate.

La storia rimanda a South Shields, città dell’Inghilterra settentrionale affacciata sul Mare del Nord, dove dal 1894 la John Barbour & Co. Tailors and Drapers rifornisce di abiti impermeabili in cotone oleato marinai, pescatori, portuali e altri lavoratori esposti alle avversità climatiche. La vocazione all’outdoor è perciò inscritta nel Dna del brand fin dalle origini, racchiusa nel motto «l’abbigliamento migliore per il tempo peggiore». Negli anni 30 viene messo a punto un tessuto ribattezzato thornproof, resistente a pioggia e vento, disponibile in tre diverse consistenze e impregnato di cera con un trattamento apposito.

Negli anni aumenta la varietà dei capispalla (Beaufort, Bedale, Border, ecc.), più o meno lunghi, in cui non mancano mai collo in velluto a coste, fodera tartan e doppia chiusura mediante zip e bottoni. Il minimo comun denominatore delle proposte è rappresentato comunque da una manciata di elementi: linee pulite, materiali robusti, spirito utilitarian e colori sobri quali blu navy, khaki e verde oliva. Di pari passo, aumentano gli estimatori, dai motociclisti agli appassionati di pesca o caccia fino agli esponenti della famiglia Windsor, che apprezzano Barbour a tal punto da conferire alla società, nel 1974, un Royal Warrant, il sigillo di fornitori ufficiale della Corona (nel decennio seguente ne arriveranno altri due). Del resto le sue giacche sono perfette per le brughiere che circondano Balmoral, e da allora in avanti non c’è membro della famiglia reale che non sia stato fotografato con una waxed jacket, Lady D inclusa: gli scatti degli anni ’80 che la ritraggono intabarrata nel giubbotto Barbour danno una spinta decisiva al marchio, che estende la produzione ad altre categorie e si diffonde un po’ ovunque; In Italia, ad esempio, diventa un must-have per gli adolescenti dei quartieri bene.

Al di là dell’enorme popolarità di Diana, comunque, Barbour deve il suo successo, con ogni probabilità, alla sostanziale atipicità del brand: i giubbotti sono riconoscibili e al tempo stesso discreti, elitari eppure dai prezzi non proibitivi. A loghi e affini viene preferito da sempre uno stile senza fronzoli, fondamentalmente invariato da decenni.
Quando negli anni ’90 calano le vendite e il declino appare incombente, l’azienda intraprende delle collaborazioni che, senza minimamente intaccarne l’identità estetica né apportare chissà quali stravolgimenti ai capi, danno nuova linfa a Barbour, facendolo arrivare a fasce più giovani di pubblico. Tutte le capsule collection si focalizzano sull’outerwear: se Tokihito Yoshida vi trasferisce il suo minimalismo dagli accenti militari, White Mountaineering gioca con la disposizione delle tasche e i pattern ad effetto, mentre Margaret Howell e Norse Projects mantengono l’understatement connaturato al marchio.
Più audaci i risultati delle due ultime collabo con Supreme e Noah, all’insegna nel primo caso di colorway energiche, nel secondo di inserti patchwork e cromie squillanti; a dimostrazione di come le cerate Barbour possano adeguarsi anche ai dettami dello streetwear.