Con la settima stagione di Black Mirror lo sceneggiatore Charlie Brooker sembra abbandonare (almeno in parte) la fredda, claustrofobica estetica techno-distopica che aveva definito le ultime stagioni della serie. Immergendosi all’interno delle emozioni umane, Brooker compie così un’operazione di ritorno alle origini, frutto di una maggiore consapevolezza narrativa maturata nel tempo.
Rispetto alle stagioni precedenti, in cui l’elemento iper-tecnologico veniva spesso messo al centro della narrazione con una spettacolarità visiva di stampo horror, in questa stagione tutto diventa una vera e propria estensione possibile della nostra realtà, dove la paura si insinua nelle nostre fragilità e ci costringe a fare i conti con ciò che sta accadendo oggi.
Ritrovando, infatti, una vicinanza con le modalità di racconto della sua prima, iconica stagione uscita nel 2011, anche qui la tecnologia è messa al servizio di riflessioni esistenziali, facendoci interrogare non tanto sul “come funziona” il mondo digitale, ma sul “cosa ci provoca” a livello emotivo.
Se la prima stagione era, per molti versi, pionieristica, figlia di un contesto ancora tutto da esplorare, quest’ultima parla a un pubblico consapevole e, forse, anche un po’ disilluso. Il risultato? Una distopia che minaccia non tanto per ciò che viene mostrato sullo schermo, ma per quanto la narrazione somigli alla nostra realtà.
Ogni episodio autoconclusivo, infatti, presenta sullo schermo prototipi fantascientifici di qualcosa che, in realtà, già conosciamo e di cui si parla già nel nostro presente. L’ansia viene provocata dalla vicinanza con le storie dei personaggi, individui complessi contraddistinti da emozioni “vere”. Le loro reazioni, i loro desideri, le loro paure diventano il cuore della narrazione.
L’orrorifico, che da sempre contraddistingue la serie, non si lega più a un immaginario oscuro e grottesco, come invece accadeva nelle ultime stagioni, ma a un’inquietudine dovuta alla riconoscibilità delle storie raccontate. È una narrazione che possiamo definire più “intima” e che, grazie alle interpretazioni degli attori, restituisce una tensione emotiva che costringe tutti noi a riflettere sul nostro quotidiano. Meno distopia futuristica, più scomoda verità contemporanea.






I sei nuovi episodi che la compongono ci portano così in un domani non più remoto e sconosciuto, bensì terribilmente vicino. Nessun futuro iper-digitalizzato, ma racconti che ritraggono scenografie di un presente che ci appare familiare. Ed è proprio questa similitudine con il quotidiano che porta lo spettatore a immedesimarsi con la narrazione e a domandarsi non più “se”, ma effettivamente “quando” assisteremo anche noi a questi risvolti tecnologici.
Quale impatto hanno le nuove tecnologie sulle nostre relazioni? Che valore assumono i nostri sentimenti in un sistema di connessioni così avanzate? Che significato diamo al ricordo quando siamo consapevoli che tutto può essere registrato e archiviato?
Qui la tecnologia permette di “entrare” letteralmente nei nostri ricordi e riflettere sulle emozioni che non siamo riusciti a cogliere nel passato. L’intelligenza artificiale non viene più associata a un sistema distruttivo o fuori controllo, ma a un insieme di algoritmi che ci conoscono meglio di quanto riusciamo a fare noi stessi. Il desiderio di conservazione del passato, la ricerca di memorie perdute, diventano lo specchio di un profondo disagio umano.
Ed è proprio su questi temi che Black Mirror colpisce tutti noi: non è tanto l’idea di una macchina pensante e autonoma a spaventarci, quanto la possibilità che essa possa comprenderci, replicarci e agire per noi. Il tema fantascientifico di questa stagione sembra vertere su una riflessione che diventa quindi anche sociologica. Una tecnologia che non è solo sinonimo di “distruzione”, ma che entra nelle nostre vite in modo autentico e angosciante.
Le emozioni vengono messe in primo piano anche a livello visivo e registico, e si avverte una maggiore essenzialità. Meno effetti speciali, più attenzione alle sfumature. I toni sono malinconici, i silenzi carichi di significato. Gli episodi sembrano quasi cortometraggi, dove ciò che non si dice pesa quanto ciò che viene mostrato.
Con questa settima stagione, Black Mirror dimostra di essere cresciuto insieme al suo pubblico. Una forma narrativa più “adulta”, riflessiva, quasi poetica, che sfrutta il disturbante in modo più sofisticato, attraversando la critica sociale. E forse è proprio questo il nuovo volto della paura: non quello che ci mostra cosa potremmo diventare, ma quello che ci ricorda chi siamo già. Il risultato è una stagione che non urla, ma sussurra. Non sciocca, ma lascia un’inquietudine persistente. Non ti costringe a spegnere il computer per prendere fiato, ma ti accompagna per giorni con quella sensazione sottile che qualcosa, dentro di te, si sia mosso.