Chi salverà il deejaying?

È strano, ma è divertente: certe volte per capire le parti più avanzate e “nuove” del presente devi fermarti un attimo, sì, e fare non uno ma due passi indietro. Due seri, convinti, consapevoli passi indietro. 

Fermiamoci infatti un attimo, e guardiamo cosa è diventato nel tempo l’ecosistema del clubbing, il mondo dei dj/producer, quale traiettoria ha percorso. Un viaggio che parte dagli anni ’70 e dal loft newyorkese di Dave Mancuso, passa successivamente per gli anni ’80 synth-pop-edonisti, si sviluppa definitivamente negli anni “chimici” generati dallo sbarco in Europa di house e techno, dei rave nelle campagne britanniche e poi nelle superdiscoteche internazionali. Da lì, si consolida negli anni 2000 incentrandosi come dinamiche e immaginario da un lato su Ibiza – e sul suo sistema industriale di divertimento – e dall’altro su Berlino, con la capitale tedesca che passa da bastione losco e periferico di libertà e spirito alternativo qual era, vedi gli anni “berlinesi” di David Bowie, a macchina da serate, stupefacenze finto-alternative e incassi corposi generati da torme di “easyJet ravers” di tutte le età. Oggi, infine, il trionfo definitivo: con le grandi corporation globali dell’intrattenimento che si sono accorte della faccenda, e hanno prima abbracciato l’EDM americana e poi il mondo globale dei festival dance, iniziando a dettare le regole; e per partecipare alla “festa” e alla spartizione di una torta diventata sempre più grossa, anche realtà supposte underground hanno cominciato a comportarsi nello stesso modo, a seguire le stesse dinamiche, creando fenomeni, creando bolle speculative, stimolando il mercato con ogni mezzo. Ecco: in tutto questo a essere cambiato – e manco poco – è pure inevitabilmente il ruolo del dj/producer, e di tutto quello che gli gira attorno. Non potrebbe essere altrimenti.

Parlando anni fa con uno dei pionieri assoluti del deejaying da club in chiave house (François Kevorkian, oggi ancora attivo e in formissima), che a metà anni ‘70 da aspirante e ambizioso batterista francese si era trasferito a New York in cerca di fortuna da strumentista e si era ritrovato invece a lavorare nei club in console (e che club: il già citato Loft, lo Studio 54, il Paradise Garage…), ecco, parlando approfonditamente con lui era emersa a un certo punto dai suoi racconti una divertente verità: “Guarda che quando ho iniziato a lavorare in una discoteca, il dj contava più o meno quanto il lavapiatti. Anzi, aspetta, mi correggo: il lavapiatti era un po’ più importante, per i proprietari”.

Già. Ne è stata fatta di strada, per arrivare al “dj superstar” come viene visto oggi nell’immaginario collettivo. Ne è stata fatta di strada, per uscire dagli eventi privati per pochi eletti, dalle discoteche dove contavano molto di più i vip e gli incassi al bar dei dj, dai primi seminali rave dove proprio i dj non avevano faccia e non avevano nome, dal consolidamento poi degli anni ’90 e primi 2000 in cui però attenzione, il deejaying e la club culture erano comunque nicchia rispetto al mainstream. Ne è stata fatta di strada, oh sì. E in tutto questo percorso, abbiamo incontrato dei passaggi molto particolari, tipici peraltro di ogni subcultura che improvvisamente si trova a navigare verso il successo trasversale: il rifiuto del “commerciale”, la specializzazione feroce in sottogeneri, l’ostilità verso wave musicali che non fossero legate all’elettronica pura, il continuo non sentirsi parte della cultura pop contemporanea quanto invece convintamente dell’underground, e questo nonostante a un certo punto iniziassero a fioccare gli ingaggi a quattro, cinque zeri…

A un certo punto però il Guetta famous&fuckable che incontra i Black Eyed Peas, Diplo che mostra i pettorali sui cartelloni pubblicitari, gli Swedish House Mafia ballati da chiunque (a partire da quelli che nulla sanno di house), Calvin Harris in cima alle hit, Skrillex ascoltato da milioni hanno cambiato le regole del gioco. Oggi non tanto il deejaying in sé quanto la figura del dj, il “personaggio” cioè del dj, è conficcato nell’immaginario mainstream. E lo è tuttavia in maniera strana, quasi macchiettistica, spesso bidimensionale. La club culture non è più (solo) una nicchia controculturale di resistenza, ma una macchina da soldi che ha la possibilità – e spesso l’obbligo – di essere perfettamente inserita nel “sistema”. È diventato tutto più bidimensionale, e scusate se ripetiamo l’aggettivo; è diventato tutto in qualche modo più prevedibile, replicabile e industriale. 

Risultato? Nell’ultimo decennio, tutti volevano fare i dj – o esserne almeno amici, essere parte del “giro”. Tutti volevano il glamour del suonare attorniati da ragazze (o ragazzi) in console; tutti sognavano il jet set fatto da party & stupefacenza gioiosa; tutti investivano i propri guadagni per stare a Ibiza o drogarsi a Berlino. Se non tutti, molti. Moltissimi.

Ne hanno approfittato in parecchi. Anche quelli della vecchia guardia: che hanno capito come gira il fumo, e hanno iniziato a chiedere duemila, cinquemila, diecimila, ventimila, cinquantamila, centomila, trecentomila euro per un singolo dj set, iniziando ad attorniarsi solo e unicamente delle persone e delle situazioni che gli avrebbero permesso di entrare stabilmente in questo tipo di dinamica di crescita continua. Ma pure quelli della nuova guardia, negli anni 10 del nuovo millennio, non hanno perso tempo e si sono svezzati in fretta: hanno imparato che avere un buon agente/manager e un’ottima gestione dei social conta quanto e più del saper suonare, del conoscere ad amare la musica e la club culture. È passato insomma il messaggio che meglio ancora del deejaying è il fare-la-vita-da-dj, con tutti gli annessi e connessi. Ed è passato il messaggio, come velenoso corollario, che non sei un vero dj se non fai la “vita da dj di successo”, in una standardizzazione vippaiola che fino a solo vent’anni prima sarebbe stata impensabile. Quando ancora era tutto un po’ controcultura, nel clubbing, esattamente come le nostre città un tempo era tutta campagna. 

Tutto questo può portare a due esiti, fra chi oggi persegue la strada artistica del fare il dj: al collasso artistico da un lato, per eccesso di pigrizia creativa (perché sbattersi se le cose vanno bene già così, impegnandosi al minimo e nel modo più prevedibile e standardizzato possibile?), e all’imbarbarimento emozionale dall’altro, perché quando pensi solo ai soldi e all’edonismo dopo un po’ c’è poco da fare, ti guasti, ti guasti male, anche se non te lo vuoi confessare. Vai avanti, partecipi al gioco, magari vinci, vinci pure, ti va tutto molto bene, il pubblico sembra seguirti e amarti; ma c’è qualcosa che non va nel meccanismo (e la tragica scomparsa di Avicii è stata un brutto campanello d’allarme in tal senso). 

Poi succede anche un’altra faccenda, sia tra gli addetti ai lavori che tra il semplice pubblico: ci si inizia a chiedere dove stia la differenza tra arrivismo e voglia di esprimersi. Tra chi cioè fa il dj per vocazione, e chi invece lo fa per arrivare ai soldi e alla fama il più in fretta possibile, perché sembra l’unica strada possibile, l’unica strada che funziona davvero, l’unica strada da percorrere se non vuoi restare dopolavorista a vita nel mondo scintillante della fama e dello spettacolo. 

E qui torniamo a noi. Qui torniamo a come oggi sia un ottimo e necessario consiglio quello di partire un po’ dubbiosi quando si incontra per la prima volta un dj, un dj magari sulla rampa di lancio. Ovvero: sarà un montato? Avrà intrapreso questa carriera solo perché oggi tira? Userà la musica solo come tool per la propria esposizione mediatica e la propria aura di persona “famosa”?

Per fortuna la musica parla. E parla anche il passaparola fra chi ne sa, fra chi ancora sa distinguere tra sistema industriale e talento (…e sa che queste due componenti possono pure coesistere in modo sano, non “dopato”). 

Nel momento in cui è nata l’idea di testimoniare l’emergere di una nuova generazione di talenti tra i dj/producer italiani, passo dopo passo la matassa è stata sempre più piacevole da dipanare, da affrontare, da sviluppare. E questo per più motivi. Essenzialmente, due.

Primo motivo: siamo usciti da un periodo lungo almeno due decenni in cui almeno a parole da un lato c’era il “commerciale”, dall’altro l’”underground”. Siamo usciti da un periodo ancora più lungo in cui il campo dance non parlava con altri ecosistemi musicali, faceva vita a sé stante, circuito a sé stante: prima per orgoglio controculturale, poi per snobismo, infine per routine e convenienza. Davide Dev, Estremo, Evissimax, Fenoaltea, Greg Willen, Miss Jay, okgiorgio, Rebecca Bernardi e Yas Reven, i talenti che abbiamo radunato attorno a questo progetto di documentazione e testimonianza di un fenomeno bello e reale, sono completamente al di fuori da queste dinamiche e da questi steccati. Completamente al di fuori. E accidenti se questa è una boccata d’ossigeno, nonché la dimostrazione che veramente c’è una generazione nuova in campo, capace di cambiare i paradigmi e le vecchie abitudini. Talenti che abbiamo racchiuso per la prima volta in un evento che abbiamo fatto a ottobre, Arena, che ha visto esibirsi 8 dj dal vivo, prima in una battle poi in un b2b, e che oggi immortaliamo in un singolo scatto.

okgiorgio si è fatto una sua trafila con l’indie-pop dei Pinguini Tattici Nucleari, ma questo non gli impedisce di essere uno convincentissimo talento sulla scia creativa “libera” dei Fred Again e dei Four Tet. Greg Willen si è fatto un nome nell’urban come producer, ma da dj cavalca ferocemente e felicemente techno pesante e adrenalina. Miss Jay suona nei santuari dell’”intellighenzia” elettronica come C2C, ma ha una comunicazione di sé bizzarra, amabile e autoironica. Estremo fa un producer album con voci emergenti legate al pop più o meno hyper e all’urban ma ha una serietà e un rigore verso la club culture meraviglioso. Evissimax ha un’energia spaventosa e una capacità di coinvolgere il pubblico eccezionale, ma non si fa problemi a fare incroci inaspettati e sorprendenti in quanto a generi e BPM nei suoi set. Fenoaltea è ancora giovane assai, classe 2001, ma parla con la saggezza e l’intelligenza di un veterano («Probabilmente non ho mai visto e non ho mai percepito cosa sarebbe la ‘vera essenza del clubbing’; per me oggi è il condividere una situazione più intima di quello che può essere una discoteca, una situazione dove il dj abbia un contatto più diretto con il pubblico»). Davide Dev ti confessa cose di una maturità non comune come «Mi terrorizza diventare quello costretto ad essere attivo 24/7 sui social, schiavo del contenuto da meme, delle foto aesthetic o dell’ultimo trend». Rebecca Bernardi tra i suoi eroi cita Björk ed Erykah Badu, o anche Morricone, e se le chiedi cos’è per lei “club culture” ti risponde affilata che «Ballare è fare ricerca, trovare stimoli creativi da apportare a quelle che sono le nostre curiosità». Yas Reven ti cita gli Art Of Noise e Donato Dozzy, un gruppo-feticcio per boomer e più che boomer e un artista che rifugge dallo star system techno, e ricorda come per lei la priorità sia esprimere la propria visione senza compromessi, l’autenticità conta molto più del risultato.

Sono diversi, queste ragazze e questi ragazzi, dal luogo comune che circonda da qualche anno a questa parte – purtroppo spesso a ragione – la figura del dj e in generale del circo scintillante del clubbing. Sono autentici. Sono profondi. Sono riflessivi. E soprattutto, qui arriviamo al secondo punto, al secondo motivo per cui mettere su tutto questo contenuto redazionale specialissimo è stato fantastico, sono tanto artisti di talento quanto persone belle: persone che non se le tirano, che non si sentono di fare parte di un “viaggio da vip” anche se sono obiettivamente da più parti considerati gli artisti su cui puntare, i dj da chiamare per gli eventi più à la page, il sangue fresco per l’industria musicale da cui estrarre valore, novità e fatturato. Zero.

Per dire: a tutti abbiamo chiesto come vedono il formato dell’album oggi, formato che in teoria è stato o sta per essere “ammazzato” dallo streaming, e la risposta è stata un plebiscito: tutti ci hanno risposto che sì, gli album per loro sono ancora importanti, sono ancora il modo migliore per raccontare una storia più ampia (Yas Reven), disegnare sfaccettature emotive (Rebecca Bernardi), descrivere percorsi fisici e perfino spirituali (Greg Willen), esprimere una autentica presa di posizione (Estremo). Insomma, con questa nuova ondata di talenti stiamo (ri)acquistando la figura dell’artista che non agisce solo secondo le regole e le richieste del mercato, ma in modo anche educato però comunque deciso si riappropria della libertà di scegliere, di fare le cose a modo proprio. 

Non è quindi solo questione di contaminare generi ed ambiti, da bravi figli della “musica liquida”, per quanto poi questo spesso e volentieri succeda davvero. Ci vuole anche altro, sì. Ci vuole personalità. Ci vuole la lucidità di capire che la musica va al primo posto, sempre e comunque, anche se le promesse e le lusinghe della vita-da-dj sono tante, tantissime, numerose e seducenti come forse non mai, per i motivi che abbiamo provato a spiegare in tutta la prima parte dell’articolo. 

E ora forse capite meglio perché l’abbiamo fatto tutto questo discorso iniziale sull’evoluzione delle cose, non era un’introduzione messa lì per caso o per allungare il brodo: era probabilmente l’unico modo per spiegare davvero, e con la dovuta profondità, quanto i talenti emergenti che abbiamo radunato in questo speciale abbiano spessore, sostanza, capacità, abbiano cazzimma nell’essere sé stessi, non siano solo dei momentanei privilegiati di un hype che arriva e passa costruito a tavolino da management e agenzie di PR, da stylist e consulenti d’immagine. Non sono magari più parte della “club culture vecchio stile”, intransigenza snob e diffidenza verso tutto ciò che non è Detroit e Chicago, ma non sono nemmeno dei carrieristi del clubbing odierno, quello adottato e insufflato dalle dinamiche di mercato, stanchi ma fintamente sorridenti travet del successo e della fame di esposizione.

Nove artiste e artisti quelle e quelli che vedete qui che davvero raccontano il meglio di quello che già è e soprattutto potrebbe – e dovrebbe – essere lo spirito del dancefloor, del deejaying, di una club culture 2.0: apertura e curiosità a trecentosessanta gradi, sì, musicalità viva, ma anche consapevolezza della propria unicità, del proprio ruolo e catalizzatori di energie e vibrazioni in serata, e di come lo star system e l’inseguimento del “successo” vadano considerati in maniera disincantata, non come feticcio e ragione di vita. 

Non concentratevi su chi c’è e su chi manca, in questo speciale, non cadete nella trappola delle contrapposizioni e delle garette, del concentrarsi su chi sgomita o non sgomita per avere visibilità: concentratevi sul fatto che questi nove artisti e artiste coi controcazzi raccontano – finalmente – una nuova generazione di dj/producer armate e armati di talento, armate e armati della giusta attitudine, capaci di superare di slancio e con naturalezza vecchie dinamiche, vecchi automatismi, vecchie logiche corporativi, vecchie consorterie, vecchi luoghi comuni. In Italia indie e urban hanno saputo rinnovare un pop che era stantio da tempo, col nuovo millennio; ora, attenzione, potrebbe toccare ai dancefloor cambiare le cose, portare del bene. Dieci anni fa, ma anche solo cinque, non ci saremmo sbilanciati così.

Production:
Outpump Studio
Art Directon:
Alessandro Pellegrino
Photo:
Antonio Giancaspro
Photo assistant:
Alessandro Bianchi
Runner:
Adama Kounda Barry
Location:
DOTS