Ci siamo dimenticati del “Made in Italy”

Il cambiamento climatico, le fonti di energia inquinanti, la sovrapproduzione e, in generale, il tema della sostenibilità ambientale hanno da un po’ di tempo invaso la discussione sulla moda, infiltrandosi in ogni azione, in ogni giudizio, in ogni espressione. Per molti brand è stata una presa di coscienza che li ha costretti a confrontarsi con un aspetto profondamente deleterio del settore su cui nessuno aveva mai ragionato. Per altri è stato (e continua a essere) un modo per trasformare in marketing un’irrisolvibile fragilità congenita. Dove e come vengono prodotti i capi di abbigliamento che compriamo e ci mettiamo è diventato l’aspetto centrale di una battaglia che molti attivisti portano avanti in maniera potente e su cui i media costruiscono tonnellate di informazione. In questo contesto il marchio “Made in Italy” rimane, per chi se lo può permettere, una garanzia di qualità e rispetto di leggi estremamente vincolanti, un modo di salvaguardare le proprie scelte comprando più responsabilmente. È anche vero però che le parole “Made in Italy” non sono solo un modo per geolocalizzare la produzione di un abito o di una borsa, ma corrispondono anche a un concetto estremamente identitario che racconta oltre che il “dove”, anche il “come”, “chi” e “perché” della moda italiana. E, purtroppo, il fatto che in questo momento storico questa importante questione sia passata in secondo piano, non è una buona notizia.

Storicamente l’etichetta “Made in Italy” viene imposta a partire dagli anni Sessanta a certe categorie di prodotti da normative europee, per differenziare, ad esempio, la produzione di lavatrici tedesche da quelle italiane, considerate di qualità nettamente inferiore. Quando l’Italia, durante il Miracolo Economico, diventa una forte esportatrice di prodotti in Europa, uno dei modi per resistere all’avanzata inarrestabile delle aziende italiane, che vendevano a un prezzo mediamente molto più basso, da parte di Francia, Germania e Inghilterra, è di dare una valenza negativa a tutto ciò che proviene dal Bel Paese. “Made in Italy”, nell’immaginario collettivo dell’epoca, era simbolo di bassa qualità, di mancanza di cura, di sud del mondo.

Per vedere cambiare radicalmente il significato del marchio di origine più famoso al mondo bisogna arrivare agli anni Ottanta, un momento in cui la moda riesce a fare quello che nessun’altra area produttiva italiana si era avvicinata a compiere: trasformare il significato del termine “Made in Italy” da negativo a positivo. Questo avviene perché una schiera di nuovi designer diventano nel giro di pochissimo tempo delle superstar internazionali, riuscendo a conquistare il ricchissimo mercato americano, il primo al mondo per capacità di spesa. Giorgio Armani, Gianni Versace, Gianfranco Ferrè e Krizia aprono negozi su Rodeo Drive a Los Angeles o su Madison Avenue a New York con la facilità di chi conquista casette al Monopoli. I loro affari si ingigantiscono nottetempo grazie alla loro capacità di individuare le richieste nascoste di una nuova classe borghese americana che ha bisogno di dimostrare di essere ricca, di avere gusto e di scegliere i vestiti giusti. Dietro di loro aziende che seguono un modello industriale con una dinamicità ed elasticità produttiva che semplicemente non esiste nel resto d’Europa e tantomeno in America. Due fattori che rendono unico e irripetibile il modello italiano per dei motivi precisi.

La prima questione è quella della collocazione dell’identità. Negli anni Ottanta esistono molti designer importanti in Francia, in Inghilterra e anche in America. Vivienne Westwood e Katharine Hamnett a Londra introducono la lotta politica dentro un progetto di moda strutturato, cibandosi di cultura punk e descrivendo con un’estetica radicale i conflitti sociali inglesi. Il loro riferimento, il loro palcoscenico, è la cultura underground, la scena dei club londinesi, la vita notturna in cui la marginalizzazione diventa espressione autentica di sé. Per questo motivo non raggiungeranno mai un vero successo di mercato.

A Parigi Thierry Mugler, Claude Montana o Christian Lacroix parlano a un ristretto pubblico di signore eccentriche e ricche che sono costrette a teatralizzare la propria esistenza che altrimenti sarebbe spenta e noiosa. La loro vita è costantemente proiettata su uno stage e i loro vestiti non possono rischiare di confondersi con l’omogeneità del grigiore delle banlieue. È una visione classista e divisiva della moda che infatti sparirà presto dalla circolazione. In Italia invece il luogo in cui affermare le proprie identità è dal Rinascimento, molto più prosaicamente, la piazza. L’urbanistica italiana, costruita fino ai tempi dei romani intorno a un luogo centrale in cui si svolge la vita pubblica, ha influenzato il nostro modo di esprimerci. Per gli italiani vestirsi vuol dire essere riconosciuti dai propri concittadini, da una ristretta comunità che ha regole molto precise da cui si può sfuggire solo andandosene. Il conformismo è l’elemento centrale dell’estetica abbigliamentare italiana, all’opposto di quella francese e inglese. Essere in grado di scegliere degli abiti che aiutano gli altri a metterci in una categoria sociale, senza spaventarli, è una dote che si sviluppa fortemente all’interno delle prime enclave comunali del Quattrocento e arriva a noi, quando passeggiamo nella via centrale di una città di provincia, quasi intatta. Il prodotto degli stilisti italiani degli anni Ottanta è la riproduzione in scala mondiale di questa capacità, la risposta alle ansie di autorappresentazione della business woman rampante di Boston, della ricca imprenditrice texana o della produttrice cinematografica di Los Angeles. Nessuna di loro vuole sentirsi eccentrica e tutte loro vogliono sentirsi centrali nella nuova narrazione del potere femminile. Ma senza strappi, senza manifestazioni in piazza.

Quando i department store americani vedono i perfetti tailleur grigi di Armani, gli scintillanti abiti in maglia metallica di Versace o le perfette camicie bianche di Ferrè capiscono di aver trovato una risposta alle incessanti richieste della loro inesperta clientela. Nella prima metà degli anni Ottanta le esportazioni di abbigliamento e accessori in America crescono esponenzialmente e il motivo per cui il sistema regge è la seconda questione di cui è necessario parlare.

L’Italia uscita dalla Seconda Guerra Mondiale ha un sistema produttivo impoverito e arretrato, praticamente non conosce il significato del termine prêt-à-porter. La produzione in serie di vestiti non esiste e quasi tutti vanno dal sarto o si cuciono gli abiti in casa. Questo, da una parte, incaglia il Paese a logiche ottocentesche, ma dall’altra insegna a tutti a riconoscere la differenza tra un crêpe e un raso, tra una seta pura e un nylon, tra una stampa a tre colori e una a dodici. Quando con il piano Marshall arrivano i soldi americani per la ricostruzione, il Paese si riempie di piccoli laboratori casalinghi che diventano poi piccole aziende che curano il prodotto con un’attenzione e una cura naturali agli imprenditori italiani. I cappotti di Max Mara degli anni Cinquanta non possono sembrare la versione cheap di quelli fatti dalla sarta di famiglia, devono essere uguali, se possibile migliori, costando molto meno.

Anche le grandi aziende come il GFT di Torino o la Marzotto di Valdagno riescono a rispettare questi standard qualitativi anche quando gli viene chiesto di produrre migliaia di giacche di Armani o di abiti di Valentino. Il prodotto che arriva nei department store americani, a partire dagli anni Sessanta, è ineccepibile da un punto di vista qualitativo e con gli anni Ottanta diventa unico da un punto di vista creativo. Intorno al concetto di “Made in Italy” viene elaborata la capacità di rispondere in maniera veloce alle esigenze sociali in continuo cambiamento, mantenendo un grado di manifattura di cui solo gli atelier di alta moda erano capaci. Una ricetta esplosiva che semplicemente non esisteva (e continua a non esistere) in nessun’altra parte del mondo. L’Italia non è più solo una cartolina in cui passare le vacanze, ma diventa un produttore di contenuti, una potenza industriale e culturale che marcia ad una velocità sostenutissima. “Made in Italy” non è più una certificazione del luogo di origine ma una garanzia di qualità e di veridicità, una porta per accedere al presente alla portata di (quasi) tutti.

Questo complesso meccanismo, ancora vivissimo ai giorni nostri, è passato in secondo piano nella narrazione popolare perché sovrastato da meccanismi di comunicazione artificiali, più nutriti dalla finanza e dai social che dalla realtà. Non venendo più considerata importante, la matrice del “Made in Italy” sta perdendo di significato, sostituita da uno qualsiasi tra i membri dei BTS o da una qualsiasi delle quadrimestrali del gruppo LVMH. La rilettura della storia della moda italiana è uno strumento ancora valido per ricostruire l’unicità e i tratti identitari della cultura della moda di questo Paese e tutti, proprio tutti, dovrebbero essere interessati a studiare l’immenso patrimonio che ha portato il “Made in Italy” ad essere una delle chiavi della risurrezione del dopoguerra e uno dei motivi del profondo cambiamento della percezione che gli stranieri hanno del Bel Paese.

Foto
Pietro Bernocchi
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