Da Marine Serre a Kerby Jean-Raymond, 5 designer emergenti da conoscere

Se consideriamo il numero di designer alla guida delle rispettive label, il panorama odierno appare più affollato che mai e, al netto della visibilità di poche superstar come Demna Gvasalia e Virgil Abloh, decine di esordienti si affannano per ritagliarsi uno spazio. Un’impresa ai limiti del possibile, data la disparità di mezzi rispetto alle principali maison, spesso nell’orbita di conglomerati del lusso come LVMH, Kering o Richemont. Nonostante tutto alcuni stilisti della nuova generazione riescono ad emergere, sopperendo con la creatività alle difficoltà del caso: abbiamo selezionato cinque tra i brand in questo senso più promettenti

Marine Serre

Col senno di poi possiamo dire che la sfilata fall/winter 2020 di Marine Serre, costellata di balaclava e mascherine, lasciasse presagire lo sconvolgimento che il Covid-19 avrebbe causato di lì a breve. Tempismo -più o meno inquietante – a parte, questa francese 28enne si era già fatta notare vincendo nel 2017 l’LVMH Prize e lanciando la griffe omonima, non prima di aver fatto esperienza nei team di Margiela, McQueen, Dior e Balenciaga.
La sua moda procede per accumulo di contrasti, tra utilitarismo e sportswear, attitudine street e lavorazioni da atelier, materiali preziosi (dalla nappa al moiré, texture dall’effetto iridescente) e sintetici. Il tutto senza derogare al mantra della sostenibilità, per cui i tessuti rigenerati a partire da stock, scarti, tappeti, coperte e quant’altro, rappresentano circa la metà del totale. La sensibilità ambientale informa anche l’atmosfera degli show, allestiti ad esempio in paesaggi devastati dall’inquinamento o sotterranei fumosi; scenari decisamente angoscianti, da affrontare vestiti di tutto punto, con outfit stratificati dai volumi avvolgenti, provvisti magari di cinghie, tasconi, belt bage altri dettagli funzionali. Il menswear presenta gli stessi tratti della controparte femminile, e si snoda attraverso jeans slavati, trucker jacket, maglie stretch, giubbotti patchwork e così via, spesso decorati dal simbolo del brand, una mezzaluna riprodotta come un pattern sulle superfici.
Una visione tanto radicale quanto nell’insieme convincente, apprezzata anche dagli store, nel cui elenco figurano nomi di caratura internazionale quali Dover Street Market, Browns, SSENSE e Mytheresa.

Wales Bonner

Altra stilista pluripremiata è l’anglo-giamaicana Grace Wales Bonner, che con la label che porta il suo cognome ha fatto incetta di riconoscimenti: nel 2015 ottiene quello di miglior designer menswear emergente dal British Fashion Council, l’anno dopo il premio LVMH, nel 2019, infine, il BFC/Vogue Designer Fashion Fund. Formatasi alla Central Saint Martins, fucina di talenti della moda made in Uk, Wales Bonner è una creativa poliedrica, capace di passare con disinvoltura dalle sfilate alla scrittura, dalla musica alla curatela di mostre.
Il suo ambito d’elezione è l’abbigliamento sartoriale dall’allure vintage, infuso però di molteplici riferimenti: le forme che scivolano sul corpo, gli orli allungati e il layering sono una costante, ma a seconda delle stagioni si aggiungono influenze etniche (bluse a mo’ di caftano, sarong, ricami di perline ecc.), decorazioni tipiche del prêt-à-porter femminile (spille gioiello, piume, frange…) o, ancora, citazioni delle opere di artisti black quali Jean-Michel Basquiat o Kerry James Marshall. Un approccio interdisciplinare, insomma, comprensibile per una designer che considera l’abito «un contenitore entro cui esplorare idee e forme di rappresentazione».
A certificare la rilevanza del suo lavoro è arrivata di recente la co-lab con adidas Originals, iniziata con la collezione s/s 2020 e rinnovata in quelle successive. Wales Bonner conferisce agli item sportivi del marchio una vibe anni ’70/80, espressa in tute e tank top dal fit asciutto, lavorazioni crochet e colorway retrò – dal panna all’amaranto, al tabacco – scelte per modelli d’eccezione come Country OG, Gazelle o Samba.

GmbH

Fondato nel 2016 a Berlino, GmbH è un collettivo di designer capeggiati dal fotografo Benjamin Huseby e dallo stilista Serhat Isik. Già il nome, un acronimo che equivale al nostro S.r.l., è indicativo della volontà di presentare il brand come una pagina bianca da riempire di contenuti eterogenei, in continuo divenire, rifiutando schematismi o etichette di sorta. Huseby e Isik ci tengono a rimarcare il proprio background di figli di operai immigrati in Germania, accomunati dalla frequentazione dei locali simbolo della nightlife berlinese – Berghain su tutti – oltre naturalmente alla passione per la moda. Sono infatti clubbing e workwear, il più possibile pragmatico e funzionale, i due cardini dell’identità di GmbH: ecco allora spiegati, da un lato, top che più attillati non si può, texture lucenti, stampe vivide, flash di colore saturo, zip a iosa; dall’altro, linee nette, fleece jacket, ganci metallici sui passanti, pantaloni multipocket, imbottiture sparse, maglioni ruvidi dalle fantasie a dir poco anacronistiche.
Altra questione irrinunciabile per il marchio è quella riguardante diversità e inclusione, a cominciare dai modelli scelti per gli show, perlopiù giovani della locale comunità LGBTQ+ e collaboratori di GmbH. Senza trascurare l’aspetto comunicativo: nel 2018 ha ottenuto grande visibilità la campagna “Europe Endless”, che richiamava plasticamente le immagini patinate delle supermodel nei 90s, qui sostituite da ragazze e ragazzi di colore, reclutati attraverso uno street casting.

Magliano

Il 33enne Luca Magliano è tra i designer più promettenti della sua generazione. Fortemente legato a Bologna, città in cui è cresciuto e risiede tuttora, ha debuttato con la sua griffe nel 2016, vincendo l’anno seguente il concorso Who is on Next? Uomo e venendo nominato, da ultimo, direttore artistico del brand Grifoni nel 2019. La principale fonte d’ispirazione risiede nella sua Emilia, percepita come una dimensione peculiare sospesa tra fantasia e memoria storica, definita dai capi indossati in contesti specifici (messe, feste di paese, discoteche ecc.) quanto dai look più “controversi” di punk, raver e artisti di strada. L’ultima collezione per la s/s 2021, ad esempio, è una rassegna di tipi umani (playboy, fricchettone, borghese e via discorrendo) disposti su un carillon, descritti in un profluvio di aggettivi da una nenia ipnotica.
Magliano definisce il suo stile «vernacolare», influenzato cioè dal modo di vestire di determinati gruppi sociali: gli uomini del brand indossano pantaloni fluidi, stretti alla vita, abbinati a giacche spigolose; la maglieria è XXL, le scarpe hanno la punta squadrata. Nonostante poi i bordi asimmetrici, le imbastiture lasciate penzoloni, i gessati sfalsati e altri dettagli simili appaiano, di primo acchito, stravaganze buone solo per la passerella, uno sguardo ravvicinato rivela la padronanza dei codici sartoriali, forzati al massimo per mettere in dubbio ogni cliché del ben vestire, iniettandovi suggestioni streetwear e tanta ironia.  

Kerby Jean-Raymond (Pyer Moss, Reebok)

Kerby Jean-Raymond, figura di spicco della scena creativa black d’oltreoceano, è il fondatore della label Pyer Moss. Attivista, oltreché designer di talento, può vantare nel proprio curriculum un abito-scultura a prova di “apocalisse climatica”, esposto nientemeno che al MoMa di New York, e la menzione nel “The Next 100” di Time Magazine, la classifica delle personalità più influenti del futuro prossimo venturo, stilata dal magazine nel 2019.
Il suo lavoro assume un valore ancora maggiore considerando l’enorme eco che hanno, oggi, le istanze del movimento Black Lives Matter: i look a tutto colore di Pyer Moss, in effetti, lanciano puntualmente messaggi su argomenti di grande impatto, dalla brutalità della polizia nei confronti degli afroamericani alle disuguaglianze economiche, risultando playful e impegnati in egual misura.
Dal 2018 Raymond porta inoltre avanti una partnership con Reebok, pensata inizialmente come release una tantum e diventata, visto il successo, una collaborazione continuativa, ad ampio raggio. Il designer ha così potuto aggiornare da par suo i pezzi più rappresentativi del marchio Usa, tingendoli di cromie bold e moltiplicando su ogni superficie scritte, loghi, strisce e altre reference pescate dagli archivi. Soprattutto, ha ideato il progetto Experiment, una rivisitazione delle sneakers più fortunate della casa, come Moebius o DMX Fusion; l’ultima arrivata, in questo senso, è la Fury Trail, trainer dall’appeal futuristico, risultato della combinazione sulla tomaia di tre strati e altrettanti colori (oltre al nero della para in gomma sagomata). Alla luce di tutto ciò, non sorprende che qualche settimana fa Reebok abbia annunciato che Raymond sarà il nuovo global creative director dell’azienda; è dunque facile prevedere per il designer newyorchese un futuro (ancor più) da protagonista, del fashion system e non solo.