Le Olimpiadi di Parigi 2024 sono iniziate e con esse cresce la curiosità degli appassionati di sport di tutto il mondo. Da sempre i Giochi Olimpici hanno il merito di attirare l’attenzione del grande pubblico su sport meno seguiti, valorizzando storie di discipline e di atleti che senza questa manifestazione non avrebbero lo spazio che meritano.
Tra le novità più significative dell’edizione parigina c’è sicuramente l’inserimento del breaking tra gli sport olimpici. Per la prima volta b-boys e b-girls provenienti da ogni angolo del pianeta si sfideranno sotto gli occhi del mondo intero. Si tratta dell’ennesima vittoria storica della cultura hip hop, che festeggerà il suo cinquantunesimo anno di vita con la definitiva consacrazione di una delle sue discipline. Paragonato al rap, al djing e ai graffiti, il breaking è stato l’elemento meno raccontato e celebrato dei quattro che compongono l’hip hop. Diamo dunque a Cesare quel che è di Cesare, e celebriamo la storia di questa disciplina dalle sue origini nel Bronx alle Olimpiadi di Parigi 2024.
Quando Kool Herc inizia a organizzare le sue prime feste a Sedgwick Avenue, un aspetto che lo colpisce fin da subito è la reazione che il suo modo innovativo di utilizzare i piatti generava nel pubblico. Il dj di origine giamaicana dava di fatti grande centralità al “break” dei brani, ossia a quella parte di canzone in cui le voci e gli altri strumenti si spengono, lasciando spazio solo alla sezione delle percussioni. Notando quanto i giovani presenti ai suoi block party si esaltassero in occasione del “break”, Herc ha l’idea di prolungarlo. Inizia quindi a suonare due copie dello stesso disco su due giradischi diversi, mixandoli attraverso una tecnica che oggi chiamiamo “Merry-Go-Round”. In questo modo le persone in pista avrebbero potuto avere più tempo per ballare su questa porzione di brano, in cui è il ritmo ad avere la meglio sulla melodia. I giovani afro-americani e portoricani del South Bronx diventano quindi i primissimi breaker della storia, ossia i primissimi a ballare sul “break”. Ascoltando “Apache” degli Increbible Bongo Band o “The Mexican” di Babe Routh, i b-boys e le b-girls improvvisano passi di danza fatti di movimenti fluidi che rielaborano tradizioni differenti, dalle mosse tipicamente legate al funky e alla disco music fino alla capoeira brasiliana.
Durante gli anni Settanta, il breaking si diffonde lentamente in tutti i quartieri di New York. Ben presto giornalisti e addetti ai lavori iniziano a notare i i breakers che ballano durante i block party, nei parchi pubblici e nei club. Il fenomeno, come tutto l’hip hop, comincia a ricevere attenzioni dai media e da fette della società sempre più ampie. Si sviluppa quindi il tentativo di costruire uno show che esporti questa cultura al di fuori dei confini americani. Nasce così, nel 1982, il New York City Rap, un tour europeo con tappe a Londra e Parigi, organizzato dal club di Manhattan Roxxy e dal canale televisivo Europe1. Sul palco non si esibiscono solo rapper ma anche la Rock Steady Crew, uno dei gruppi di breaking più importante della prima era dell’hip hop. Questa crew sarà anche la prima a guadagnarsi le attenzioni del grande pubblico. La loro ospitata televisiva al popolarissimo “David Letterman Show” nel 1984, inaugura una stagione di interesse da parte dei network televisivi per questo ballo. Tale precedente garantirà, per esempio, ad un altro gruppo, i New City Breakers, di apparire in un programma pilota intitolato Graffiti Rock nel 1984, per poi esibirsi, pochi mesi dopo, a Washington D.C. davanti al Presidente Ronald Reagan, durante il Kennedy Center Honours. In concomitanza con l’interesse televisivo per il breaking, arriva anche quello cinematografico. I b-boys e le b-girls diventano protagonisti di film hollywoodiani, che ne aumentano a dismisura la notorietà. Nel classico del cinema americano Flashdance del 1983 compare per la prima volta la breakdance sui grandi schermi. Saranno però due film a certificarne l’ingresso nell’immaginario collettivo: Breakin’ the Movie e Beat Street, entrambi usciti nelle sale nel 1984. Il secondo, soprattutto, è un manifesto della prima generazione di breakers, con un’iconica battaglia tra crew nel Roxxy club di New York ad aprire il film, una scena di culto che tutt’oggi è una delle migliori rappresentazioni dello spirito originario della danza.
Ma il fulcro del breaking resta pur sempre la musica ed è con essa che avvengono i suoi maggiori successi culturali. In un primo momento b-boys e b-girls compaiono nei videoclip di brani realizzati dai pionieri dell’hip hop come per esempio White Lines di Grandmaster Melle Mel e Planet Rock di Afrika Bambaataa e dei Soulsonic Force. Ma è solo in un secondo momento, con il successo globale di Michael Jackson, che il breaking entra prepotentemente nell’immaginario collettivo. Il re del pop introduce una serie di passi riconducibili alla breaking nel suo, particolarissimo, stile di ballo. Jackson infatti rielabora nelle sue movenze l’intera tradizione del ballo afroamericano, dallo swing fino alle tendenze a lui più contemporanee. La mossa più nota è sicuramente il moonwalk che, con l’uscita del singolo Billie Jean, diventa una moda tra gli adolescenti di tutto il mondo. Al grande pubblico arriva così una forma rivisitata e corretta del breaking. I produttori discografici, vedendo la crescente popolarità di questa danza, firmano artisti in grado di imitare quello stile, avendo allo stesso tempo un’immagine spogliata dai connotati sociali, etnici e culturali che il breaking aveva ai suoi albori. È in questo periodo che i media inventano il termine breakdance, mettendo nello stesso calderone il repertorio dei breaker newyorkesi con balli di strada come il “popping” e il “locking” che, verso la fine degli anni Ottanta, si diffondono grazie alle nuove tendenze musicali provenienti dalla West Coast. Nascono quindi corsi di breakdance, che finiscono, in parte, per rimpiazzare i cypher, ossia i cerchi di persone che si formano quando diversi breaker si sfidano in strada, il luogo dove tradizionalmente si osservavano e imparavano i primi passi.
Gli anni Novanta sono, invece, una fase di calo per il breaking, che viene messo in secondo piano dal successo mainstream del rap. Durante questo decennio nasce però una forma ibrida tra il fenomeno delle origini e quello istituzionalizzato che si era venuto a creare negli anni precedenti. Si sviluppano infatti le competizioni tra b-boys e b-girl. Non più semplici gare in strada, ma veri e propri tornei organizzati a livello internazionale. Queste competizioni possono assumere diversi formati, ma i principali sono le battle uno contro uno e quelle tra crew. C’è un DJ che fa partire la musica, un MC al microfono e tre o sei giudici (di solito breaker rinomati) che votano alla fine di ogni gara, decretando il vincitore. Il più longevo torneo di breaking, attivo dal 1990, è la Battle of the Year. All’inizio degli anni 2000 avviene una rinnovata crescita di popolarità, con una nuova generazione di breaker da tutto il mondo, che ha portato nuova energia e creatività sulla scena. Alcuni paesi hanno quindi iniziato a riconoscere questo ballo come una attività sportiva a tutti gli effetti. Sono nati così nel 2013 i campionati mondiali, sotto il cappello della World DanceSport Federation, una istituzione formalmente approvata dal Comitato Olimpico Internazionale. Ai Giochi olimpici giovanili estivi di Buenos Aires 2018 viene per la prima volta aggiunto tra gli sport in gara. Nel 2020 arriva poi la notizia tanto attesa: il CIO vota favorevolmente per includere il breaking nel programma dei Giochi Olimpici di Parigi 2024. È così che si chiude il cerchio per questo ballo, che è anche uno sport, ma che è, soprattutto, cultura hip hop.