Come il logo di Aphex Twin ha superato l’immaginario musicale

C’è qualcosa di quasi esoterico e irrazionale nel culto che da oltre trent’anni circonda Aphex Twin: qualcosa che travalica l’essenza stessa della musica, e la grandezza dell’artista. Grandezza che è enorme, sia chiaro: folle pensare di sminuirla. Parliamo veramente di una persona che ha stilizzato e amplificato come pochi altri i canoni di un genere musicale intero, portando l’elettronica da ballo – quella declinata in quattro quarti da techno e house – a diventare un essere mutante, obliquo, un essere coltissimo e beffardo, sofisticato e di feroce impatto nello stesso momento: una quadratura del cerchio che a pochi altri è riuscita. 

È riuscita forse ai grandi gruppi elettronici sbanca-classifiche degli anni ’90, Chemical Brothers, Prodigy, Underworld: la sacra trinità della musica dance che raggiunge palasport e stadi senza rinunciare alla qualità e alla personalità e a un certo tipo di radici conficcate nei rave anglosassoni di fine ’80 ed inizio ’90, non nelle stupidera e nella furbizia commerciale. Ma, nel caso di Aphex, il successo e la rilevanza sono stati declinati con una componente antagonista e controculturale molto più marcata, ispida e costante. Quella componente che di solito non va d’accordo col mercato, no? Ma appunto: con Richard D. James alias Aphex Twin, tutto è possibile. Tutto. 

Non può essere solo la musica, però. Quando si diventa fenomeno mainstream e/o trasversale, non è mai solo la musica. Il punto è che Aphex Twin non solo come artista ma anche e soprattutto come figura deve essere riuscito a toccare delle corde particolari: solo così si spiega. 

Solo così si spiega come, pur non facendo lui uscire dischi epocali da almeno vent’anni se non di più (i suoi lavori più iconici sono tutti spalmati sui ’90, “Drukqs” del 2001 è un pastiche ostico e “Syro” del 2014 è un esercizio di stile nonché forse proprio un riciclo di materiale di magazzino registrato anni ed anni prima), il suo valore sul mercato continui a crescere inesorabile. Occorrono centinaia di migliaia di euro per assicurarsi una sua esibizione, oggi. Centinaia di migliaia. Il mercato è cinico, è sporco, è bastardo; ma quando si tratta di misurare l’impatto popolare di un artista comunque non mente: se Aphex Twin e il suo management possono chiedere cifre a cinque zeri (e senza un “1” davanti…) per una esibizione, questo è perché lui riesce oggi ad attirare un seguito tanto accanito quanto numeroso e disposto a tutto (anche come prezzo del biglietto) pur di esserci. E non solo: organizzare un concerto di Aphex, ospitarlo in un festival, dà “profilo”. È quindi un investimento. Un ragionamento da marketing, questo. Ma oggi nella musica i ragionamenti da marketing sono un’architrave dell’intero sistema, piaccia o non piaccia. 

Marketing di cui Richard D. James è stato antesignano, va detto. Forse involontario, ma comunque antesignano. È interessante indagare questo aspetto. Le mattane iniziali, nate probabilmente per puro spirito anarco-dadaista e humour da sabotatore culturale, sono diventate infatti tessere perfette della costruzione di una narrazione: il manomettere i synth modificandone i circuiti, l’arrivare da un posto non Londra-centrico come la Cornovaglia, i soldi estorti alla Pirelli per la colonna sonora di uno spot con Carl Lewis diventato leggendario (“Faccio qualcosa per voi che siete brand solo se mi date una quantità irragionevole di soldi”: beh, glieli hanno dati), il fatto di aver usato questi soldi (anche) per comprarsi un carro armato in disuso da tenersi in giardino, lo scegliere attentamente dove suonare e dove non suonare, il rifiutarsi di fare collaborazioni per convenienza ed esposizione – tutto questo ha concorso nel formare e rafforzare il mito di un artista che ha preso la fama  guadagnata per meriti artistici coi suoi primi lavori per farsene in realtà beffe una volta a contatto col mainstream, prenderla cioè in giro, giocare con lei. Ma sempre nel modo giusto&astuto, attenzione, e con la sottile capacità di non autosabotarsi mai: accrescendo invece il culto attorno a sé anche tra chi non lo conosce tanto, tra chi non lo segue e capisce davvero. 

Tutto questo ha superato un tipping point per cui l’icona che lo circonda è più forte di quello che in realtà Richard D. James è o fa. Funziona a prescindere. 

A rendere possibile tutto questo non sarebbe bastata la componente anarco-dadaista e l’humour sabotatorio, e nemmeno il genio musicale. Figuriamoci se poteva bastare. Sempre probabilmente senza volerlo, sempre probabilmente senza calcolarlo, Richard D. James ha anticipato l’importanza dell’immagine almeno un decennio buono prima che diventasse egemone, come oggi è: altro punto cruciale di questa faccenda. 

Il sodalizio artistico e diremmo proprio attitudinale col geniale regista Chris Cunningham ha prodotto, a metà anni ’90, un paio di video che hanno fatto epoca (“Come To Daddy” e più ancora “Windowlicker”, con la sua sarcastica ed all’epoca spiazzante riproposizione degli stilemi hip hop più crassi diventati poi molti anni dopo dominanti in modo trasversale); e il logo di se stesso nato quasi per gioco chiedendolo ad inizio carriera al compagno di università Paul Nicholson – leggenda vuole che fosse un lavoro, scartato, prodotto da Nicholson per un marchio di skatewear americano, Anarchic Adjustment – ha superato ogni confine possibile immaginabile col passare del tempo, è ovunque, è icona, tant’è che oggi lo trovi tatuato sulla pelle di molte persone (anche colleghi, pensiamo ad esempio a Ninja dei Die Antwoord) o su t-shirt indossate con orgoglio da un Travis Scott.

Nulla di nuovo sotto il cielo: il logo quando è azzeccato è un’arma potentissima per veicolare, con un oggetto solo, facilmente riproducibile e facilmente fruibile, un intero immaginario. E l’immaginario che si è creato attorno ad Aphex è forte: è quello dell’artista che non si presta a compromessi, che non piega la propria arte, che abbraccia il linguaggio controculturale dei rave ma lo fa non in modo ottuso bensì in maniera consapevole, beffarda, ironica, rendendo così felice ed orgoglioso sia chi vuole perdersi sotto i BPM alterato dalle sostanze, sia chi invece cerca tutta una declinazione intellettuale dietro alle pratiche da dancefloor. 

Un immaginario che è insomma una tempesta perfetta: riempie lo slot “cultura antagonista” a trecentosessanta gradi, sia tra le élite altoboghesi intellettuali che tra le periferie pronte allo sballo. Un immaginario fin dall’inizio con la malizia – volontaria o involontaria – del declinarsi nei modi più efficaci e immediati possibili, tramite appunto vie anche solo meramente visive, ponendosi appunto come “simbolo” e come rappresentazione, e non invece come semplice riassunto di un artista o una persona in sé: il logo infatti è astratto, non è subito riconoscibile come font e come banale insieme di lettere, come nome e cognome. 

C’è chi morirebbe per poter fare altrettanto e avere fama planetaria, Richard D. James lo ha fatto invece e ci ha marciato sopra per il motivo esattamente opposto: non avere rotture di coglioni. Potersi sfilare dalle routine promozionali quando non aveva voglia di percorrerle, uscire dalla corsa all’esposizione di sé mandando avanti al suo posto, appunto, il “simbolo”… e che fossero tutti contenti così. Richard non voleva concedere altre parti di sé al sistema dell’industria discografica. Non per follia o vanagloria, ma perché davvero non voleva avere la vita stravolta dal successo (…aneddoto: l’ultima volta che il sottoscritto ha incontrato Richard D. James di persona è stato ad un festival assurdo, Bangface, un festival senza promozione e senza uffici stampa tutto dedicato a breakcore, gabber e acid house, mentre smontava la propria tenda: sì, era venuto in campeggio, è stato tre giorni in mezzo al freddo e all’umido).

Ha funzionato. Più Aphex non faceva uscire dischi significativi (non faceva uscire nulla e basta, o si inventava qualche release estemporanea non troppo rivoluzionaria o perturbante), più comunque il suo carisma cresceva, è cresciuto, è deflagrato. Bizzarra ironia: un carisma nato con la genialità della musica ha trovato il modo di nutrirsi esattamente del suo opposto, con l’ “immagine” (il logo, l’immaginario, l’essere icona) cioè più che di “sostanza” (la musica in sé). 

Poi chiaro: questo teatrino, anzi, teatrone non starebbe in piedi se le apparizioni live di Aphex Twin fossero sempre una merda o una grattata, spesso e volentieri sono effettivamente dei sabba pieni di idee e di stimoli non convenzionali, che non si fanno problemi a lambire le frontiere della percezione e della sperimentazione sia audio che video. Questo rafforza il mito, e lo rafforza bene: gli ultimi due tour creati assieme al genio visuale di Weirdcore sono davvero tanta roba, una botta nello stomaco sensoriale. 

Oggi comunque c’è chi si appropria di Aphex Twin, della sua musica e del suo logo non tanto per Aphex in sé, quanto semmai per respirarne il sapore di genio&sregolatezza, di irriducibilità di fronte alle leggi del mercato. Irriducibilità però da una posizione di forza: la posizione di chi, al mercato, succhia centinaia di migliaia di euro ad ogni apparizione, è insomma un “vincente” secondo le ciniche leggi dell’industria dello spettacolo. Altri eroi di simile estrazione stilistica, di simile background e anche di simile talento – un nome su tutti: Mike Paradinas, alias µ-ziq – sono nel nuovo millennio un mero culto per pochi adepti e per sparute resistenze culturali su quando l’elettronica da dancefloor era ancora sfida e controcultura, non la colonna sonora preferita dell’edonismo mainstream. Paradinas ed altri eroi simili emersi negli anni ’90 oggi non se li fila quasi nessuno, difficilmente finiscono tatuati sulla pelle di chicchessia, o nel guardaroba traviscottiano.

…è la forza dell’immaginario e della narrazione, bellezza. Accidenti se è lei. E funziona anche nella controcultura: nel momento in cui – apposta o non apposta – finisce inglobata dalla narrazione, dai numeri e dalle dinamiche mainstream.