Sondaggi alla mano, Trump è il favorito nelle corsa alla presidenza americana. Ciò che fino a pochi anni fa sembrava impossibile, potrebbe accadere a Novembre. Il Tycoon, dato da molti morto politicamente, sta risorgendo dalle sue ceneri. Ma non è il sequel di un film horror, non c’è nulla di inspiegabile in questa rinascita. C’è infatti una visione stereotipata dell’elettore trumpiano assai diffusa negli Stati Uniti e in tutto il mondo. È il frutto marcio della disumanizzazione dell’avversario politico, che si trasforma in nemico immaginario, in mostro senza volto. Un errore di pensiero che si rivela tale, non per la difesa di una sorta di spirito democratico ideale, ma in quanto inefficace nella prassi. Disumanizzare non permette di osservare la realtà in maniera scientifica, alimenta pregiudizi e annulla le possibilità di analisi. È così che gli elettori di Trump diventano tutti Cletus, il “bifolco allocco” de I Simpson che vive in una roulotte, ha venti figli e fa fatica a contare fino a dieci. Associare i sostenitori del Tycoon allo stereotipo – profondamente classista – dell’american white trash è erroneo e, secondo i sondaggi, tenderà ad esserlo sempre di più. Se infatti nelle elezioni del 2016 e del 2020 il conflitto razziale era stato un fattore centrale nell’orientare il voto, oggi la situazione sembra profondamente cambiata. Trump sta guadagnano legittimità in tutte le minoranze, perfino in quella nera. Stando ai sondaggi condotti dal New York Times in collaborazione con il Siena College, in sei stati chiave per la vittoria finale il Partito Repubblicano otterrebbe circa il 22% del voto all’interno della comunità afro-americana. Se questi dati dovessero essere confermati su scala nazionale, saremmo di fronte ad un dato storico: nessun candidato democratico alle presidenziali, dall’epoca dei diritti civili in poi, ha ottenuto meno dell’80% delle preferenze tra le persone nere. Trump sarebbe di fronte quindi ad un risultato incredibile: considerato il 6% ottenuto nel 2016, avrebbe in otto anni quasi quadruplicato la percentuale di voti ottenuti nella comunità afro-americana.
Questa crescita esponenziale può sembrare effettivamente un paradosso. Infatti, nonostante l’ex Presidente si ostini a definirsi davanti ai giornalisti “la persona meno razzista che tu abbia mai incontrato”, il suo passato e il suo presente parlano da soli. Si può dire che la carriera stessa, politica e imprenditoriale, di Trump sia fondata su presupposti razzisti. Da giovane rampollo di una famiglia di costruttori, il Tycoon ha assemblato il suo impero economico su politiche edilizie discriminatorie, tanto da essere incriminato, già nel 1977, per aver applicato strategie razziste in ambito abitativo. Nel 1989 erano diventate un caso mediatico le pagine pubblicitarie comprate da Trump in sostegno alla pena di morte per i “Central Park Five”, un gruppo di ragazzi neri accusati ingiustamente di aver stuprato una ragazza a New York. La sua ascesa da personaggio televisivo, a partire dagli anni Novanta, è stata poi costellata da una serie infinita di commenti denigratori sugli afro-americani e non solo. Infine, non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo, l’elezione di Trump nel 2016 e il suo quadriennio alla Casa Bianca sono stati costruiti su concetti assimilabili al suprematismo bianco. Non a caso, lo scrittore e giornalista afro-americano Ta-Nehisi Coates lo definisce il primo presidente bianco, ossia il primo per cui l’essere bianco non è stato un privilegio passivo, ma una forza attiva e manifesta. E allora come mai Trump gode del sostegno, seppure minoritario, di un porzione massiccia e crescente della comunità nera?
Innanzitutto, esiste un lunga tradizione di conservatorismo afro-americano. Si tratta di un pensiero politico, spesso legato alle congregazioni religiose più radicali, che si impernia su valori tradizionalisti, capitalisti, patriottici. A partire dagli anni Ottanta, la figura di Trump, che ha sempre amato raccontarsi come un self made man, ottiene un gradimento crescente tra i neri conservatori. Trump viene infatti da molti percepito come un hustler, uno che, impegnandosi duramente, è riuscito ad arricchirsi nella società americana. La figura dell’hustler, che potremmo definire come la reinterpretazione della retorica del sogno americano tra i neri, non è però appannaggio solo dei conservatori, è un concetto diffuso in maniera capillare nell’immaginario collettivo della comunità. Il rap ha ricoperto un ruolo centrale nell’interpretare, diffondere e, in un certo senso, inflazionare l’idea dell’hustler e, infatti, sono tanti i rapper che hanno citato Trump come personaggio positivo nei loro brani. “Richest nigga in my hood, call me Donald Trump / The type of nigga to count my money while I smoke a blunt” dice, per esempio, Jeezy in “Trump” del 2012 con Birdman. Non è un caso quindi che, dal 2016 in poi, siano stati i rapper la categoria che maggiormente ha sostenuto il Tycoon all’interno della comunità nera. Resta storica, a modo suo, la foto che ritrae Kanye West con l’ex Presidente nello studio ovale, ma sono tanti coloro che hanno fatto endorsment, più o meno velati, a Trump.
Il leader repubblicano ha quindi spinto sull’acceleratore, cercando negli ultimi anni di attribuire a sé un immaginario legato al rap, servendosi di stereotipi profondamente razzisti. È il caso del celeberrimo mug shot di Trump, la foto scattata dopo l’arresto dello scorso 24 Agosto, che è stata utilizzata come fonte inestimabile di propaganda. Quello scatto ha contribuito ad alimentare una narrazione che vede l’ex Presidente come perseguitato dalla giustizia, ma ha anche scatenato un’ondata di meme e montaggi sui social che lo ritraevano nei panni di un “gangsta”. A raccogliere e promuovere questo materiale che ritrae Trump come una sorta di “eroe del ghetto”, ci sono diversi profili sui social che si muovo pericolosamente tra ironia, reale sostegno a Trump e diffusione di fake news più o meno credibili. Una delle più interessanti è “Trap 4 Trump”, che condivide una enorme mole di post che glorificano la figura dell’ex Presidente come fosse un rapper. Queste pagine hanno però un effetto sulla realtà. In tanti hanno notato come nella convention dei neri Repubblicani dello scorso Febbraio, la maglietta con la stampa del mug shot di Trump fosse il gadget ampiamente più indossato dai partecipanti al convengo.
La fascinazione che una parte minoritaria della comunità afro-americana ha per l’ex Presidente non esaurisce però le motivazioni che la stanno portano a sostenerlo in maniera crescente. Un sentimento diffuso, soprattutto tra i più giovani, è un’ampia sfiducia nei confronti dell’establishment democratico, di cui Biden – bianco, anziano e da cinquant’anni nelle istituzioni – è la rappresentazione plastica. Si tratta di una crisi del progressismo come pensiero politico, che non si limita alla sola comunità nera ma che in essa è particolarmente evidente. Ad essere fallita è l’idea di una America post-razziale, da molti sostenuta e immaginata con l’elezione di Obama nel 2008. Insieme a questa idea è stato smarrito il patto sociale che legava il Partito democratico al suo elettorato storico, tra cui, evidentemente, c’è quello afro-americano. È un dato che, più di prima, ha a che fare con la percezione che le persone hanno della condizione in cui versa il paese. Il consigliere di Bill Clinton, James Carville nelle elezioni del 1992 ha coniato lo slogan “It’s the economy, stupid!”, una frase che stava a significare che era l’andamento dell’economia a determinare le preferenze di voto degli americani. Ecco, ammesso che questa formula fosse vera in passato, oggi è irrimediabilmente falsa. Tutti i dati economici, anche relativi alle minoranze, darebbero ragione a Biden, eppure i sondaggi dicono altro. Oltre alla sfiducia generale verso il leader democratico, ci sono alcune questioni specifiche che ne determinano l’allontanamento dalla comunità nera. Una parte di quest’ultima, storicamente solidale con la causa palestinese, ha osservato con sdegno il massacro dei civili a Gaza, al quale Biden non è riuscito a porre fine. Dall’altra parte, su un elettorato afro-americano più moderato e religioso, ha avuto un effettivo negativo l’ampio sostegno dato dall’amministrazione democratica al movimento LGBTQ+.
La possibile crescita di Trump tra i votanti afro-americani non sarebbe quindi tutta farina del suo sacco. Secondo il giornalista Charles Blow, questi risultati, ammesso che vengano confermati alle urne, rappresenterebbero un naturale allineamento della comunità nera agli standard elettorali nazionali. Nel 2020, il 95% delle donne nere e l’87% degli uomini hanno votato per Biden, dei dati totalmente fuori scala rispetto al resto del paese. La motivazione principale di questo successo elettorale dei democratici era stato l’acuirsi dello scontro razziale nell’estate del 2020, che aveva portato moltissimi afro-americani alle urne calmierando l’emorragia di voti dei democratici nella comunità. Oggi, nonostante siano passati solo quattro anni, il clima percepito è differente. Il dibattito pubblico vede al centro i migranti, la guerra e l’inflazione. Il razzismo sembra un tema passato e a Trump, questo, non sembra vero.