Con la mente di un rivoluzionario, con il cuore di una persona

«È una scelta, va bene! Però non è che abbia rinunciato alla voglia e al piacere di costruire qualcosa. Ma costruire non nel sistema, evitando che ti possa ciulare. Fuori dal sistema si possono ancora fare delle cose. È questa la mia scelta».

A Milano il cielo non prometteva niente di buono. Con le sue nuvole aveva steso uno strato uniforme di incertezza, che si protraeva fino a dove gli occhi riuscivano ad andare oltre ai palazzi, e anche l’aria non era da meno, accompagnata dal tipico sentore che preannuncia un’imminente e inattesa pioggia. Era comunque necessario che, all’incrocio tra Via Giuseppe Giusti e Via Antonio Rosmini, il tempo fosse dalla mia parte, o per lo meno, era necessario che reggesse durante l’intera ora in cui avrei parlato con Ugo La Pietra. Sì, perché era fondamentale che fossimo all’esterno, a contatto con la città: dovevamo essere immersi fino al collo all’interno di quell’ambiente che La Pietra ha esaminato fino a conoscerne l’esatto numero degli atomi che lo costituiscono.

Scoccate le tre del pomeriggio, si vede un cappello dalla piccola tesa sbucare da dietro una recinzione e, nascosti sotto di esso, gli inconfondibili baffi con cui La Pietra ha da sempre deciso di completare il suo viso. Arrivato a piedi direttamente dal suo studio, che non dista più di cinque minuti dal luogo del nostro incontro, ha percorso quello che simboleggia il confine d’entrata o d’uscita – dipende dai punti di vista – della Chinatown milanese, una zona da lui frequentata assiduamente e vissuta con grande partecipazione sin dagli anni ‘60. E mi piace immaginare che sia arrivato con lo stesso fare sicuro e disinvolto anche al MoMA nel 1972, quando presentò il suo allestimento all’interno di “Italy: The New Domestic Landscape”, la mostra che più di tutte consacrò a livello internazionale la grandezza del design italiano. Tuttavia, con lui non ho parlato dei Compassi d’Oro che ha vinto, dei progetti esposti al MoMA o alla Triennale di Milano, ma del suo modo di vivere, di vedere e di decodificare la città.

La giacca verde abbinata a un pantalone giallo dice già tutto su di lui, soprattutto se si pensa ai suoi 84 anni e al fatto che non perda un secondo del suo tempo. Ma La Pietra ci tiene subito a fare emergere la sua personalità ironica e allo stesso tempo acuta, risoluta e tagliente. «Io faccio tutto: scrivo, rispondo… Ma alla fine non so nemmeno perché sono qui!». Sembrava, infatti, che non avesse idea di quello che di lì a poco avrebbe fatto, ovvero scattare qualche foto e chiacchierare del suo lavoro. In realtà, quello lo sapeva benissimo e ci scherzava sopra, ma era realmente ignaro di chi aveva davanti e non perché gli fosse stato nascosto, ma perché gliene importava il giusto. Aveva accettato l’invito senza preconcetti, senza erigere delle barriere e senza porsi dei limiti, proprio come ha fatto per tutto il corso della sua vita, affrontando qualsiasi cosa gli si ponesse davanti. Perché una delle figure più rilevanti dell’arte, dell’architettura e del design italiano, dall’alto del posto che si è ritagliato in decine di anni di carriera, avrebbe dovuto concedersi a un magazine che parla ai giovani? Beh, perché come lui stesso ha specificato, ai nostri occhi non ci devono essere dei paletti e, se esistono, sono proprio lì per essere abbattuti. «Un tempo c’erano dei confini ben precisi e se uscivi, ti sparavano nel culo! Le nuove generazioni, dagli anni ‘80 in poi, non hanno più confini e, per questo, gli manca la cosa fondamentale, cioè gli stimoli per rompere questi confini, per superarli e, quindi, invadere nuovi territori». E così La Pietra continua a fare ancora oggi, non smettendo di alimentare quell’atteggiamento rivoluzionario connaturato nel suo approccio alla vita, lo stesso che lo ha portato ad essere una delle personalità chiave della sua amata e odiata Milano.

Dopo essersi guardato attorno con attenzione, finalmente La Pietra prende posto sulla seduta che userà per l’intera durata dell’intervista, una reinterpretazione morbida e confortevole dei panettoni, quegli arredi urbani disseminati per tutte le strade che Giulio Iacchetti ha deciso di tramutare in pouf per l’ambiente domestico. Colgo così l’occasione per introdurre subito il motivo per il quale ci troviamo in questo contesto. Neanche fosse un messaggio in codice, basta dire una parola per fargli capire tutto: panchina. Si tratta di un oggetto diffusissimo nell’ambiente urbano, che è stato analizzato e indagato da La Pietra decisamente a fondo, fino a trovarvi una nuova chiave di lettura. La panchina non è più solamente un luogo di aggregazione o attesa. La panchina, come insegna La Pietra, è piuttosto un punto di osservazione, un avamposto urbano dal quale scrutare tutto quello che succede nell’ambiente circostante, così che si possa interpretare e decodificare. Ed è proprio facendo fede a questo rovesciamento di prospettiva che ho voluto parlare a La Pietra in modo tale che a stimolare il dialogo fosse tutto ciò che intorno a noi avremmo potuto notare.

«La panchina l’ho usata per la prima volta come uno strumento concettuale e spettacolare all’inizio degli anni ’80». Essendo profondamente legato a questo oggetto, non ci pensa due volte a spiegarmi quando vi ha avuto a che fare nel corso della sua carriera. «In quel momento si apre un decennio di spettacolarizzazione in cui cambia tutto. Hai presente la febbre del sabato sera, vero? Il passaggio dalla concettualità alla spettacolarità, per uno come me, era difficilissimo da affrontare, quasi impossibile. Erano due cose opposte: quindi, come fare? In quel momento ho avuto l’intuizione e ho scoperto che esisteva un luogo, a cui io mi rivolgo sempre, che è il giardino del 1700. In quel luogo, molto di più di un qualsiasi parco o di un bosco sui grattacieli, si conciliavano queste due categorie e, al suo interno, il labirinto poteva fungere da perfetto esempio di oggetto allo stesso tempo spettacolare e concettuale. Perciò, secondo questa logica, anche una panchina non era più un luogo semplicemente del riposo, ma diventava un osservatorio dal quale si voleva far vedere qualcosa o, al contrario, non far vedere».

Immediatamente, dalla sua seduta urbana, La Pietra inizia a guardarsi attorno e a farsi suggestionare da ciò che gli cade sotto gli occhi, prima fra tutte la chiesa in cemento grezzo che fa da scenografia ai nostri discorsi, la Chiesa Parrocchiale della SS. Trinità in via Giusti, a Milano. «Questo è un posto magico, di una bellezza-bruttezza infinita. Quello che mi dispiace è di aver fatto sempre film in questo quartiere e quando li ho fatti, ormai un po’ di anni fa, questo posto non c’era. Sarebbe stato un luogo adattissimo». Stimolato dalla sua indole che ancora oggi è unicamente rivolta all’ideazione, alla progettazione e alla creatività, allora non posso fare a meno di ipotizzare che sotto quella chiesa possa ancora girare uno dei suoi film. Dopotutto, chi lo fermerebbe? «Tutti i miei film li ho fatti sempre sfruttando delle situazioni urbane particolari che trovavo molto suggestive e da lì mi venivano delle idee. Questa chiesa è un luogo quasi metafisico, con colonne altissime. Dal punto di vista della suggestione può darti tante idee e, infatti, è uno stimolo che sicuramente userò!».

Il cinema è stato il suo strumento di comunicazione prediletto e lui stesso ricorda come abbia iniziato ad usarlo. «Nel ‘72, all’indomani della prima grande crisi, eravamo arrivati al punto di aver convinto Sottsass, al tempo noto a tutti per il suo lavoro con Olivetti, che l’oggetto era segno di consumismo e che fare degli oggetti in quelle condizioni era assolutamente sbagliato. Allora, quando poi ha avuto l’incarico di fare la Triennale nel ‘72, ci chiese a noi giovani designer di non portare degli oggetti. Era proibito, l’oggetto era diventato tabù. Così portammo dei filmati. Ecco perché ho cominciato a fare cinema». Una scelta, ancora una volta, poco convenzionale, perché nel mondo dell’architettura e del design, soprattutto durante gli anni ‘70, i film non erano mai stati impiegati in maniera significativa. La Pietra, però, ha deciso di prendere in mano uno strumento decisamente avanti con i tempi e sfruttarlo per comunicare in maniera più immediata e approfondita i risultati delle sue indagini, soprattutto quelle relative alla città. «Ho fatto tanto cinema e avrei dovuto continuare a farlo perché è la cosa che sapevo fare meglio. Però costava troppo e a un certo punto ho dovuto smettere. È un grande rimpianto che ho, perché con il cinema ho dimostrato di avere avuto un’occasione che ho sfruttato al massimo e che ho affrontato, come per tutte le cose, arrangiandomi».

Improvvisamente la mia attenzione viene catturata da un bagliore proveniente da una vetrina esattamente davanti a noi. La vetrina è un’entità che La Pietra, attraverso la sua prospettiva sempre originale e mutevole, ha indagato fino a svilupparne una lettura che la investe di un ruolo molto più rilevante di quello che si può immaginare. «Siccome sono maniaco del rapporto tra esterno e interno, ho trovato nella vetrina quel classico luogo dove queste due categorie si incontrano e si scontrano. E dato che abitare la città vuol dire abitarla anche fisicamente, allora la città viene definita proprio dalle vetrine, poiché sono prevalentemente quelle che vediamo mentre ci muoviamo per le strade. Non sono gli architetti, i designer, gli artisti o gli arredatori a creare l’immagine delle nostre città, ma sono i vetrinisti! Sono loro i più grandi creativi che le danno una fisionomia. Se tu vai in una città medievale, come noi ne abbiamo tante, dove tutto è bello ma è allo stesso tempo legato al 1300 e 1400, allora un’insegna al neon nella piazzetta diventa la città, è quella che ti ricorderai e il resto diventa secondario».

Penso per un secondo alla vasta produzione di La Pietra, che spazia dall’arte all’architettura e dal design all’editoria, passando per i già citati film. E ripercorrendo nella mia mente i suoi lavori, emerge chiara e limpida una costante, un’attitudine al progetto che è poi sfociata in uno stile di vita. La Pietra ha sempre deciso di spingersi fuori dagli schemi, indipendentemente da quello che fosse il risultato da ottenere o lo scopo per cui lavorare. «Durante gli anni ‘70 qualcuno mi ha inserito nel movimento dei radicali e la cosa da una parte mi ha fatto piacere e dall’altra mi ha fatto un enorme dispiacere, perché i radicali erano giovani scapestrati, non avevano lavoro e hanno deciso di mettersi a fare delle cose un po’ alternative. Il sistema lo richiedeva, tanto che anche l’impiegato di banca si faceva crescere le basette lunghe: tutti erano diventati alternativi. Solo che quell’atteggiamento lì io l’ho conservato per tutta la vita, è un po’ come la rivoluzione: quando si fa la rivoluzione, non è che una volta fatta finisce tutto. La rivoluzione deve essere permanente, se no il sistema si rigenera subito». Finalmente capisco come poterlo definire: non un architetto, non un designer o un artista, piuttosto un rivoluzionario! Ma La Pietra aggiunge. «Adesso sono l’erede di tutte le figure che un tempo esistevano e che si chiamavano intellettuali. Cioè coloro che guardavano la società, ne avevano un atteggiamento di complicità, però poi ne prendevano le distanze, la capivano e la spiegavano. Poi non sono l’intellettuale tradizionale, perché io dipingo tutti i giorni, ho suonato per cinquant’anni in un’orchestra, ho diretto otto riviste e tante altre cose, mentre l’intellettuale dovrebbe essere quello che lavora avendo degli strumenti molto raffinati. Di certo non si sganghera da tutte le parti come faccio io».

A un certo punto, oggetto della nostra conversazione diventa inevitabilmente Milano, il teatro della sua vita, materia di studio insostituibile e protagonista indiscussa dei suoi film. La Pietra non è milanese di origine, ma lo è sicuramente d’adozione e il fatto di averla analizzata a fondo per decine di anni gli ha permesso di osservarne i veri cambiamenti, da quelli macroscopici e lenti che possono passare inosservati, a quelli più evidenti che riguardano le abitudini delle persone. «Sembrava che a Milano, durante quegli anni, non potesse cambiare niente, invece è cambiato tutto. A Milano, per esempio, non si vedeva mai nessuno per strada, perché il milanese lavorava e tutti stavano in casa. Adesso, invece, tutti stanno per strada, mangiano e bevono continuamente. Le persone, poi, non solo non stavano nella città, ma non avevano nemmeno un rapporto sociale con essa, tanto è vero che Milano è stata l’unica grande città europea che non ha mai avuto una sala da tè». Ironia della sorte, volto lo sguardo al piccolo bar che si affaccia sulla strada proprio vicino a noi, una delle insegne a sfondo verde recita “Sala da tè”. È come se Milano volesse scherzare con La Pietra, forse un po’ offesa da questa puntuale disamina che la vede dissezionarsi tra i ferri di un chirurgo della città.

«Un’altra differenza sostanziale è che Milano, negli anni ‘50 e ‘60, aveva la Casbah che era Corso Garibaldi, dove nessun poliziotto poteva mettere piede. Era fatta solo di osterie, di casini, osterie, casini, osterie, casini… puttane, osterie e casini. Ed era un territorio in cui soggiornavano gli artisti perché, come in tutti i quartieri degradati, tutto costa di meno. Per anni io stesso ho avuto lo studio in Garibaldi e pagavo 20 mila lire al mese, mentre adesso ci fanno le boutique». La Pietra, poi, torna a ragionare sul rapporto tra le persone e la città. «All’inizio degli anni ‘80 si verifica un fenomeno nuovo, per cui chi vive nelle nostre città sono sempre più singoli, le famiglie sono sempre più disgregate, il quartiere ha perso le relazioni e quindi l’individuo non ha più voglia di stare in casa e vive nella città, generando la movida urbana che è un fenomeno di affollate solitudini. Questo perché si esce non per fare qualcosa, ma semplicemente per rispondere al bisogno di superare la solitudine».

«Milano è anche una città che ha tanti difetti e il difetto peggiore è che tutti si eccitano al massimo quando c’è la Milano Design Week, che essenzialmente vuol dire “facciamo tutti il cazzo che ci pare: io affitto il negozio del ciabattino e ci metto i miei vasetti del cazzo, perché sono un giovane designer che vuol fare carriera con i vasetti del cazzo”. È una dispersione di energie, nessuno riesce a vedere tutto e non si capisce niente, però per i giovani è una festa. Questo fenomeno poi si ripete anche in molte altre città organizzando la notte bianca, dove tengono aperti i negozi e c’è casino tutta notte, che è un appropriarsi della città in modo quasi isterico. Invece – adesso dirò una cosa strabiliante anche se banale – tutte le città dell’Impero Romano erano costruite da zero e chi le progettava pensava al fatto che dovessero essere delle città in cui la popolazione riuscisse a soddisfare il proprio bisogno di divertirsi. Allora facevano i grandi fori, i circhi, le arene, le terme dove si andava a scopare e ne facevano di tutti i colori… Insomma, la città era costruita perché i cittadini la potessero usare nel senso alto della parola, ovvero abitare e abitare in modo gioioso e gratificante. Una concezione completamente opposta alla nostra. Questo per dire che oggi nelle nostre città l’architetto fa i grattacieli, il designer fa tutti gli oggettini del cazzo, poi gli artisti pensano di entrare nel sistema dell’arte e non vedono l’ora di entrare nei musei. Ma chi è che pensa alla città? Nessuno, o meglio, c’è qualcuno che mi risponde dicendo che c’è uno stuolo di giovani assatanati che fanno i murales. Ma vaffanculo! Sto parlando di una città fatta per la gente e non semplicemente per andare a decorare qualcosa». La Pietra chiude così, con una sorta di invettiva contro i murales, proprio gli stessi che campeggiano su una facciata di un palazzo alla nostra sinistra e che ricordano ai ragazzi che giocano a calcio nel campetto sottostante un semplice motto “Se vinci sempre non sai cosa ti perdi”.

La Pietra mi fa notare l’ora. Tra una cosa e un’altra, trainati dai racconti di una vita, abbiamo sforato il tempo a nostra disposizione, ma mi rimane una sola domanda da porgli, che si ricollega alla panchina con cui abbiamo iniziato. Esiste un suo film illuminante intitolato “La riappropriazione della città” (1977), in cui passa in rassegna una serie di luoghi tipici della città, come la piazza, lo stadio o il teatro, mostrandone prima la versione codificata, ovvero l’idea che tutti hanno di quei luoghi, passando poi alla sua personale versione degli stessi. Così, gli chiedo quale sia la sua panchina. «Quella codificata è quella che c’è al parco, ma la mia panchina come luogo da cui osservo le cose… sto pensando dove posso avere questa postazione particolare. A Milano non ce l’ho. Ce l’avevo in Garibaldi quando vivevo lì, dove praticamente avevo tutto. Lì i miei punti di riferimento erano molto precisi ed erano tanti, era la mia città. La conquista del territorio è proprio questa, quella in cui tu trasformi tutte le cose in tue cose. Avevo lo studio in un cortile interno e le persone che invidiavo di più (ride, ndr) erano i negozianti, perché stavano tutto il giorno sulla vetrina a veder passare le persone. Ogni tanto, però, riuscivo a mettermi sul portone. Perché nell’androne, lì in Corso Garibaldi 50, c’era una lunga panchina che serviva proprio per le signore prostitute che vivevano lì e per la portinaia, mezza prostituta anche lei, che facevano salotto tutto il giorno. E questo era un loro posto privilegiato, ma ogni tanto ne approfittavo anche io. Al tempo avevo questi punti di riferimento e adesso non più, la mia panchina qui non c’è più, però almeno ci sono dei posti dove lavoro. Proprio adesso, infatti, vado a lavorare a tutti i miei quadri e ai miei disegni».

Foto di
Francesco Spallacci