Con un del tutto inaspettato e sorprendente colpo di scena, nella giornata di ieri il gruppo Kering ha annunciato la fine della collaborazione tra Alexander McQueen e Sarah Burton. La sfilata dedicata alla collezione primavera/estate 2024 del brand che si terrà il 30 settembre a Parigi sarà quindi l’ultima della stilista, la quale si trova a dover lasciare un ruolo ricoperto da 13 anni.
Il rapporto lavorativo tra la designer e il marchio risale in realtà a ben prima. Burton si è infatti unita per la prima volta alla casa di moda come stagista nel 1996, per poi tornare dopo aver terminato gli studi alla Central Saint Martins. È nel 2000 invece che è diventata Head of Womenswear Design, lavorando a stretto contatto con il fondatore Lee Alexander McQueen. Infine, dopo la tragica morte di quest’ultimo, avvenuta nel 2010, è arrivata la nomina di direttrice creativa e da lì in avanti il suo compito è stato quello di portare avanti l’heritage di McQueen attraverso un’eccezionale idea di sartorialità.
L’operato di Sarah Burton nell’ultimo decennio è stato particolarmente buono dal punto di vista commerciale e del prodotto. A confermarlo sono i numeri: nel 2014 il fatturato era di 220 milioni di euro, per poi arrivare a delle vendite pari a 758 milioni nel 2021, che nel 2022 sono diventati 830. Ed è proprio su questo punto che il gruppo di François-Henri Pinault si dovrà confrontare, ma non solo.
Bisogna ammetterlo: Alexander McQueen è un brand piuttosto difficile da gestire per un direttore creativo. Si tratta di uno di quei nomi che vengono considerati sacri all’interno del fashion system e (soprattutto) indissolubilmente legati al suo fondatore. L’eredità di Lee McQueen è infatti mostruosa e indiscutibilmente complicata da perseguire, ma è altrettanto vero che può essere vista come un’inesauribile fonte di ispirazione da cui attingere (e non soltanto con dei nostalgici riferimenti d’archivio). È per questo motivo che il sentimento comune che nelle ultime ore aleggia nell’aria è quello di un desiderato ritorno alle origini del brand, con una visione che, anche in parte, riesca a riprendere il pensiero dello stilista britannico.
Quello che auspicabilmente ci si aspetta della prossima direzione creativa è quindi una maggiore attenzione nei confronti dello storytelling e del lato esperienziale che il marchio era in grado di offrire quando il suo fondatore era in vita, senza ovviamente dimenticare la sua abilità da couturier. Lee Alexander McQueen era infatti visionario e trasgressivo, con una personalità estremamente complessa, e ce lo comunicava soprattutto attraverso le sfilate.
Nella collezione F/W ’95 raccontò per esempio il cosiddetto “stupro socio-culturale della Scozia da parte dell’Inghilterra” attraverso abiti strappati, pose sconvolte e un’ipersessualizzazione dell’immagine femminile; per l’autunno/inverno 1998 volle ricordare Giovanna d’Arco concludendo il défilé con una modella che danzava tra le fiamme; nel 2001 fu la volta di “Asylum”, uno show che esprimeva tutto il suo turbamento psicologico citando le opere di Joel-Peter Witkin e il ribaltamento dei canoni di bellezza da lui professato.
Perché non riscoprire allora questo lato e far nuovamente parlare Alexander McQueen con dei fashion show che non si limitino soltanto a presentare dei bellissimi capi nuovi da aggiungere al proprio guardaroba? L’occasione sarebbe perfetta, soprattutto se consideriamo quanto la performance (o gimmick, per alcuni) sia diventata un aspetto importante nelle fashion week di oggi.