In Marco Jacopo Bianchi, in arte Cosmo, ogni elemento è musica. Dal suo percorso artistico che lo ha portato a creare nel tempo un’identità sonora sempre più cangiante e multipla nelle sue possibilità compositive, sino agli elementi sonori della sua Ivrea in cui l’architettura di olivettiana memoria diventa protagonista di vita passata e futura, così come della sua stessa musica giocando con la canzone classica italiana, provando a farne una sua versione fuori dagli standard industrializzati.
Partendo dal documentario Antipop, diretto da Jacopo Farina e disponibile su MUBI dal 1 marzo, incentrato sulle origini artistiche di Cosmo e sul suo conseguente sviluppo, senza cadere nei classici cliché odierni di pura idolatrazione artistica, abbiamo tracciato il percorso artistico di ciò che oggi lo ha portato a comporre un album come Sulle ali del cavallo bianco che come testimonia lui stesso è il lavoro con cui ha raggiunto la maturità sonora, coadiuvato dal suo nuovo compagno di produzione Alessio Natalizia, in arte Not Waving. Visionari in un nuovo modo di intendere il pop.
Sulle ali del cavallo bianco è un lavoro che più che risentire del precedente album, La terza estate dell’amore, fluttua nelle molteplici funzioni musicali che Cosmo ha perpetrato negli ultimi anni, dal progetto cinematografico con Luca Guadagnino, Fiori Fiori Fiori!, presentato fuori concorso al Festival di Venezia nel 2020, sino alla sua family di Ivreatronic e a un nuovo modo di concepire il live e la musica così come il suono che circonda la nostra nuova realtà uditiva.
Nell’installazione ideata appositamente per l’uscita dall’album dal visual artist Gabriele Ottino (situata sino a domenica scorsa nella stazione centrale di Milano) che sembra ricordare il monolite di 2001 Odissea nello spazio, Cosmo ci invita a entrare nel suo spazio sospeso nel tempo, dove uscendo saremo testimoni di un nuovo mondo sonoro antipop.
Cosmo sarà in tour per presentare la sua nuova musica dal vivo, a partire dal 30 marzo dal Tuscany Hall di Firenze. Dopo il debutto fiorentino, il tour arriverà il 2 aprile alle OGR di Torino (sold-out), il 6 aprile alla Casa della Musica di Napoli, l’8 e il 9 (sold-out) aprile all’Estragon di Bologna,il 10 e 11 (sold-out) aprile all’Alcatraz di Milano, il 17 e 18 (sold-out) aprile all’Hall di Padova, il 23 e 24 (sold-out) aprile all’Atlantico di Roma, il 26 (sold-out) e 27 aprile all’Eremo di Molfetta (BA) e il 30 aprile al Teatro Verdi di Cesena. Info e biglietti sul sito di DNA concerti.
Vorrei partire chiedendoti, in che modo il film/documentario Antipop, diretto da Jacopo Farina, e incentrato sulla tua prima parte di carriera si unisce perfettamente al tuo nuovo album, Sulle ali del cavallo bianco? Osservando prima il documentario e successivamente ascoltando il tuo nuovo lavoro, ho notato che in entrambi i casi ci fosse il tentativo di veicolare un messaggio. Una sorta di racconto continuo per spiegare la tua evoluzione e la concezione che hai della musica che componi oggi.
Fico. Penso che vadano vissuti insieme perché di fatto quello che vedi nel documentario e quello che fruisci all’interno dell’album sono sempre frutto di ciò che penso rispetto a quello che produco. Volevo che anche il documentario aderisse ad una verità che provenisse dettagliatamente dal mio vissuto. Nel progetto Antipop sono stato coinvolto direttamente da Jacopo Farina con l’intenzione che fosse unicamente la mia voce a diventare il veicolo del racconto, senza apparire come intervistato. Il risultato che ne è venuto fuori è quanto di più fedele e aderente alla realtà soprattutto rispetto a quello che rappresenta la mia percezione artistica, il mio pensiero musicale. Mi fa sicuramente piacere che tu abbia riscontrato questa familiarità proprio perché quello che cerco di fare è di mettere in pratica tutto ciò che ha rappresentato e rappresenta per me la musica. Dai primi brani che ho realizzato con la mia band che nascevano da un’estrazione indie underground sperimentale, post punk, sino ad arrivare ad una forma più melodica, sono la rappresentazione di queste due componenti che fanno sì che la musica sia la cosa più importante anche e soprattutto oltre la mia immagine di artista. Sono assolutamente nella mia zona comfort quando si tratta di produrre un nuovo brano, oppure di presentarmi al pubblico attraverso la mia musica, perché mi ci rifletto, mi ci trasmetto totalmente. Quindi anche se compongo degli album molto diversi tra loro, come può essere La terza estate dell’amore, sicuramente più politico, più guerriero, e quest’ultimo molto più intimista, sentimentale, nascono tutti da un’urgenza, dalla sincerità che in qualche modo cerco di far trasparire. Tra l’altro, alle volte, per esprimermi, per dire della cose ad una data persona, magari scrivo una canzone. Mi piace questo modo di esprimere le cose. Nella musica ci trovo veramente un’espressione che prende vita propria, che mi fa sentire totalmente a mio agio. Nel film si racconta proprio quello che è per me la verità rispetto al processo artistico, della mia musica, del mio modo di vederle.
Nell’ultimo periodo c’è stata una produzione massiccia di documentari incentrati su superstar musicali che nel tempo può rischiare di creare una sorta di deaficazione dell’artista stesso attraverso un’idolatria incondizionata. In che modo pensi che un documentario possa creare effettivamente una connessione con l’artista, senza scadere nella mercificazione dell’immagine?
L’ostacolo più grande da evitare secondo me è proprio questo, cercare di non cadere nell’autocelebrazione. Mi rendo conto come il mezzo filmico, documentaristico, possa essere un qualcosa con cui puoi trasmettere anche dei contenuti, andare a fare una sorta di chiosa rispetto al discorso musicale. Quindi si può mostrare qualcosa di nuovo, di nascosto, rispetto a ciò che con la musica, tendi, invece a mostrare in maniera più esplicita. Ho accettato che venisse realizzato Antipop proprio per questo, non volevo che fosse il racconto idealizzato, la classica storia del ragazzo che si impegna e ce la fa. Sono proprio contrario politicamente e ideologicamente alla grande bufala della narrazione capitalistica che se uno si impegna ce la fa, alla narrazione hollywoodiana del “segui i tuoi sogni”, lo stesso sogno americano di cui ne stiamo vedendo il totale fallimento.
Ti riferisci anche alla struttura dei classici biopic americani?
Assolutamente, come se ci fosse una predestinazione che se ti impegni arrivi al risultato che ti eri posto. Sicuramente è vero, però non è frutto solamente di quel percorso. Quindi un documentario su di me non lo avrei mai immaginato secondo queste logiche, con un messaggio così, anche se il rischio è quello. Posso dirti che alcune persone mi hanno scritto dicendomi: “a che bello vedere che se ti impegni raggiungi il tuo risultato” ed io volevo rispondergli ma non era quello l’intento del documentario (ride). Secondo me bisognerebbe sempre guardare alla componente umana, molto profondamente umana e “sfigata” della vita, della nostra esistenza. Anche nel mio caso mi piaceva più che altro evidenziare le persone che mi circondavano, la loro bizzarria, vedere come poi alla fine una carriera un progetto musicale possono venire fuori da tutt’altra filosofia che non sia anche quella di raggiungere il successo, dello spaccare.
Come se tutto il processo musicale fosse il frutto di un’esperienza condivisa?
Primo assolutamente quello e seconda cosa anche il fatto che tu possa venire fuori non da un sogno, dalla classica strada che volevi fosse scritta già dal principio. Il mio sogno come dico anche nel film era veramente quello di mantenermi come un operaio ma facendo solamente musica. All’inizio pensavo solamente di poterci arrotondare, non lo vedevo come il mio lavoro principale e così ho iniziato a farlo con la speranza che nel tempo fossi riuscito a tirarci su uno stipendio. Non è che pensavo che dovessi per forzare spaccare le classifiche, anche perché la musica che facevo non era proprio consona a quel contesto, però facevo 70 concerti l’anno con la band. Quindi quando ha iniziato a venire fuori qualche attenzione su Cosmo, sul mio progetto solistico, ho iniziato a dire magari ci tiro su veramente un possibile stipendio. A lungo non è stato così e conseguentemente mi sono sentito demoralizzato perché veramente ci spendevo tantissimo tempo. È sicuramente interessante vedere una storia raccontata così piuttosto che attraverso uno storytelling del tipo “minchia io ci ho creduto, volevo spaccare e sono arrivato” perché non ha molto senso mostrarla, diventa conseguentemente artificiale. Non c’erano sogni nel mio percorso e tra l’altro per assurdo le cose sono iniziate ad andare bene quando con l’uscita de L’ultima festa avevo deciso di non sbattermi più come prima nella musica e non ci credevo più proprio per niente.
Rispetto al tuo nuovo lavoro, Sulle ali del cavallo bianco, ho notato che ci fosse l’idea di portare agli ascoltatori qualcosa di completamente nuovo che trovo molto più simile al progetto ambient che hai realizzato con Ivreatronic nel 2021, Nuova Sauna Possibile, legato soprattutto anche ad un nuovo modo di fruire la musica dopo il periodo pandemico, alla contemporaneità sonora di ciò che ci circonda. In che modo questi aspetti coabitano nel tuo nuovo lavoro? Anche rispetto al tuo lavoro per la colonna sonora di Fiori Fiori Fiori! di Luca Guadagnino che avevi realizzato proprio in quel frangente.
Sicuramente ci sono degli elementi in comune, anche perché, per dirla banalmente, mi annoio sempre a fare le stesse cose, però sicuramente ti posso dire una cosa, durante la pandemia avevo giocato con Ivreatronic a fare la radio, si chiamava Radio Indimenticabile. Abbiamo fatto un mese di trasmissione ad aprile del 2020 e già di mio come dj negli ultimi anni mi ero trovato a selezionare della musica specifica ma che fosse concepita prettamente per ballare quindi lì sono stato costretto a chiedermi cosa possa fargli ascoltare per accompagnarli nell’arco della giornata? Da lì ho riscoperto tutte le cose più ascoltabili, mano ballabili, cosa che mi ha fatto conseguentemente tornare sulla dimensione di tutto quel mondo più melodico che a me piace. Le canzoni, le cose più morbide, ma allo stesso tempo in quello stesso periodo avevo voglia di spaccare tutto perché non si poteva più vivere la realtà della musica dal vivo e penso che alla fine abbia prevalso quell’aspetto nel mio precedente lavoro, La terza estate dell’amore. Far letteralmente scoppiare i posti di gente che balla capito! Quindi l’album venne molto più orientato verso il dancefloor. Terminato questo periodo di 2/3 anni di sfogo, ho sentito di nuovo la voglia di fare canzoni più “canoniche”. È tutto un mio trip, non è che ci sia dietro una sottoforma di calcolo dietro tutto questo, ma si basa prettamente su quale esigenza prevalga sul momento. Adesso avevo voglia di canzoni più classiche, sentivo l’esigenza di giocare con la canzone classica italiana, provare a farne una mia versione come nel caso di brani come L’abbraccio o Talponia, che sono sicuramente molto classici nella loro forma.
Però credo che allo stesso tempo tu sia sempre riuscito ad avere un approccio differente anche nella forma cantautoriale, e questo si manifesta sia nei tuoi primi lavori ma soprattutto in quest’ultimo dove si sente una consapevolezza differente, più maturo dal punto di vista produttivo.
Quello assolutamente. Ci tengo a dire che questo è il primo album che non faccio da solo e sicuramente questi aspetti che denoti anche tu sono dati dalla presenza di un bravissimo musicista che stimo veramente molto come Alessio Natalizia, in arte Not Waving, con cui ho lavorato alla produzione di Sulle ali del cavallo bianco. Un amico, un fratello che stimo da tanti anni, che ritengo anche più bravo di me rispetto a determinate cose, con un guizzo di genio sulla produzione. Adesso stiamo collaborando in maniera veramente molto stretta e con la sua presenza nel mio nuovo album sicuramene ho avuto un rinforzo di idee così come un maggiore coraggio nel buttarmi in certe soluzioni anche più pop ma allo stesso tempo sperimentali. La mia stella polare da anni è proprio questa qui, più pop e più sperimentale, sempre di più. Con lui devo dire che abbiamo sicuramente raggiunto il livello più alto di sound che ho mai realizzato, e sono contento che anche tu l’abbia notato. Come suono, coma maturità, come produzione e bilanciamenti è molto poco pesante da ascoltare, fatto proprio in maniera che il suono ti accarezzi.
Ascoltandolo mi ha ricordato anche quel pop volutamente plasticoso di SOPHIE che cercava di spingersi verso altri lidi magari staccandosi dalla sua forma canonica da classifica.
A si certo, anche un pochino asciutto con un suono in faccia, dritto. Comunque nella mia testa così come in quella di Alessio in realtà la nostra musica dovrebbe poter essere in classifica, solo che non c’è l’abitudine a certi suoni ma la nostra intenzione era super pop non volevamo essere sperimentali, difficili. Vogliamo essere comprensibili. Sicuramente la nostra collaborazione che si è consolidata con questo album, ma nasce già alla fine del 2022 con il singolo La verità, proseguirà ancora per molto e abbiamo intenzione di fare altri dischi come Cosmo
Che differenze hai notato lavorando in team rispetto ai tuoi precedenti lavori come Cosmo?
È stata una svolta, anche la velocità con cui abbiamo lavorato, il modo in cui ci siamo anche divertiti in studio. Invece di essere io da solo che giorno dopo giorno tornavo in studio e cambiavo la struttura dei brani, avere una persona vicina che ti diceva chiudiamo questo brano che è una bomba, lasciamoci ispirare dalle idee più strane, ci ha permesso quasi di aizzarci a vicenda anche rispetto ad una differente sperimentazione come una chitarra classica che si trova in Talponia, oppure un suono di cui non si comprende la matrice. È stato molto funzionale al processo creativo e credo che insieme funzioniamo molto bene. Ci fidiamo l’uno dell’altro.
Infatti proprio in Talponia non ti aspetti una chitarra utilizzata in quel senso ma si penserebbe ad un suono più lavorato, quasi destrutturato, meno melodico. Ma ha pienamente senso rispetto a quello che vuoi raccontare. Ha una funzione specifica.
Si assolutamente, anche quel suono di batteria di Talponia è assurdo (riproduce con la bocca il suono). In generale abbiamo lavorato sul sorprenderci e sorprendere soprattutto per tutto ciò che ha riguardato la strumentazione, tanto che potresti veramente dire, ma che cazzo è sta roba (ride). Io ho voglia di questo.
Penso che il bello sia proprio questo, lasciarsi veramente sorprendere da ciò che si ascolta e penso che sia un elemento che oggi difficilmente si riesce a trovare. Sembra tutto e troppo standardizzato. Penso anche al cinema nazionale, è raro trovare ciò che si produce al di fuori come ad esempio in Corea oppure in Giappone che negli ultimi anni stanno avendo anche la propria consacrazione all’interno degli Oscar. Non si riesce ad uscire da un’idea di arte industrializzata.
Certo, non si dovrebbe notare che dietro tutto questo ci sia comunque un’industria che macina introiti. Quando lo senti è un pacco (ride). Con Alessio parlavamo di utopia, di essere dei visionari in qualche modo, di avere un orientamento a fare delle cose che si spera nessuno abbia mai fatto, o quantomeno provarci. Questa qui è un po’ la nostra utopia, quella cosa a cui vogliamo tendere. In generale l’ho sempre fatto però adesso ce lo siamo proprio focalizzati. Lavoriamo su questa roba qui per portare qualcosa veramente di diverso.
Come nasce l’idea dell’installazione alla Stazione Centrale di Milano per la promozione dell’album? Che fine ha rispetto, ad esempio, hai tanti progetti pop up che abbiamo visto a San Remo per rappresentare gli artisti in gara e il proprio singolo con un fine unicamente commerciale?
Io credo che alla fine si tratti sempre di marketing, è sempre legato al concetto di promuovere qualcosa da vendere, ma penso allo stesso tempo che anche quando fai promozione/marketing devi cercare il più possibile di concepire qualcosa di artistico, che abbia qualcosa di performativo. Penso che se fai la pizzeria a Sanremo è si carino, però rimane qualcosa che diventa palesemente marketing senza alcun fine artistico, rimane lì. A me piace molto questa cosa e in effetti dopo questa installazione, che tra l’altro nasce da un’idea del visual artist Gabriele Ottino, ho riflettuto su questo aspetto, su come potrei pensare di concepire qualcosa del genere ogni qual volta esce un mio lavoro. Pensandoci bene è qualcosa che ho sempre fatto. Ad esempio, per l’uscita de La terza estate dell’amore con Emiliano Colasanti (Fondatore di 42Records) avevamo pensato di posizionare delle casse in determinate zone d’Italia e farle risuonare con alcuni brani presenti nel nuovo album visto che non si poteva riprodurre dal vivo, diventando quasi più virtuale che fisico. Penso che ci siano veramente mille possibilità basta mettersi in moto e pensare. Perché ovviamente lo fai per attirare l’attenzione ma allo stesso tempo stai realizzando qualcosa di artistico, che esprima qualcosa in più. L’installazione di Gabriel (Ottino) è realmente un portale sospeso nel tempo inserito soprattutto in uno spazio dove solitamente le persone vanno di fretta, ma entrando in quel contesto vivevi una realtà parallela che continuava ad esistere aldilà di quello che succedeva fuori. È stato molto stimolante per il sottoscritto nel senso che già sto pensando a cosa realizzare per il prossimo album.
È qualcosa che vorresti portare anche in tour?
Penso sia abbastanza complicato, il concerto per quanto sia potente e abbia già una drammaturgia il più possibile particolare, rimane comunque un concerto. Pero effettivamente… Parlando in generale credo che un concerto sia già di per se qualcosa di molto forte se vai ad ampliare l’esperienza il rischio è che secondo me diventi una cosa prettamente forzata. È bello che ci sia della gente radunata in un posto, che sta vicina, che condivida un bel mood, è già qualcosa che fa bene allo spirito. Anche se allo stesso tempo mi piacerebbe avere delle idee che possano cambiare la prospettiva delle persone sull’evento. Dovremmo pensarci, andare oltre, sfondare sta parete in qualche modo.
Come un’esperienza di pre-concerto.
Poi c’è anche da dire che possono esserci dei limiti tecnici come gestire il flusso delle persone che devono entrare ed altre tematiche organizzative. Ad esempio con Ivreatronic quando facciamo le nostre feste abbiamo questo format in cui quando entri c’è già un DJ che suona, si inizia già 10 minuti prima con le porte chiuse così che quando entra la prima persona già comincia ad entrare nel mood della serata. Spesso mi piace farmi trovare io in console a sorpresa. È come se fosse un flusso che già è partito da prima. L’idea di avere il DJ già in console me l’ha data un mio collega di Ivreatronic, Foresta, che in passato aveva un locale ad Ivrea in cui ha invitato due/tre volte a suonare Gigi D’Agostino che utilizzava già questa pratica cominciando a suonare mentre il locale era ancora chiuso. Un’ora prima dell’apertura iniziava già a suonare in modo da creare la vibrazione quasi come fosse un rito che precedeva l’evento. Quindi ho pensato, cazzo bella questa idea. Creare un flusso dove puoi immergerti sin da subito.
Infine, volevo chiederti se hai ancora l’ambizione di poter lavorare nel mondo delle colonne sonore come accade per il film di Luca Guadagnino, Fiori Fiori Fiori!?
L’idea mi piace sempre. Vorrei idealmente trovare il regista che possa darmi una fiducia estrema, quasi carta bianca, lasciandomi svolazzare. Credo che realmente nell’ambito delle colonne sonore si possa veramente osare tanto. Perché nei film comunque la colonna sonora non deve essere catchy per forza, ma deve rappresentare qualcosa di forte o di dolce che possa portarti aldilà dell’esperienza cinematografica. Una volta settato il ruolo della musica, puoi fare quello che vuoi. Il linguaggio cinematografico a livello musicale mi intrippa veramente molto. Mi piacerebbe molto lavorarci, lo ribadisco.