Cristo si è fermato a Genova

«Arrivai ad una strada che da un solo lato era fiancheggiata da vecchie case e dall’altro costeggiava un precipizio. In quel precipizio è Matera […] Questi coni rovesciati, questi imbuti si chiamano Sassi, Sasso Caveoso e Sasso Barisano. Hanno la forma con cui a scuola immaginavo l’Inferno di Dante». Così, nel 1945, Carlo Levi descrive le condizioni di Matera in Cristo si è fermato ad Eboli, una città rurale abbandonata da Dio e dallo Stato, le cui condizioni insalubri sono il risultato di anni di trascuratezza politica e urbana. Una nuova vita inizia per Matera nella seconda metà del Novecento, quando grandi architetti italiani come Giovanni Michelucci si dedicano alla sanificazione e riqualificazione di questo territorio. Tali operazioni di ridisegno dei luoghi nascono da un sentimento di colpa. Una colpa tutta italiana, quella di non essersi resi conto dei deserti culturali che stavano lasciando dietro di loro.

Non è un destino più felice quello delle grandi città negli anni della ricostruzione postbellica, quando gli architetti più influenti del Novecento si dedicano alla progettazione di nuovi spazi per l’abitare dedicati agli sfollati appartenenti alle classi sociali meno abbienti. È questo il caso di Genova, che a partire dagli anni Cinquanta diventa oggetto di operazioni di riqualificazione urbana e di progettazione di nuovi complessi popolari come accade a Milano, Bologna, Roma, Napoli e Trieste.

Sono gli anni in cui Amintore Fanfani, allora ministro del lavoro, idea INA-Casa, il piano di intervento dello Stato Italiano per la costruzione e progettazione di edilizia residenziale pubblica su tutto il territorio nazionale. L’Italia, ferita e devastata dalla guerra, si ritrova a fare i conti con milioni di sfollati, la cui casa è stata ridotta in brandelli dai bombardamenti. I migliori architetti italiani vengono coinvolti nei progetti, oltre a una moltitudine di professionisti (urbanisti, ingegneri, geometri) che partecipano alla realizzazione di quartieri popolari, di cui Genova conserva quelli che ancora oggi vengono considerati dalla storia dell’architettura i casi più discussi di sempre.

Parte del grande piano di INA-Casa è il famoso quartiere Forte Quezzi, meglio noto come il “Biscione”, progettato tra il 1956 e il 1968 da un gruppo di architetti coordinati da Luigi Carlo Daneri ed Eugenio Fuselli. Il complesso abitativo è il risultato di una ricerca costante su nuove sperimentazioni abitative condotta soprattutto da Daneri e legata agli influssi del Movimento Moderno, in particolare di Le Corbusier. Sono cinque edifici, lunghi ciascuno oltre 300 metri, il cui disegno segue l’andamento delle curve collinari su cui vengono realizzati. Ad unire armoniosamente i complessi è il cuore di progetto, la Chiesa Mater Ecclesiae, simbolo di fede e speranza, costruita alla fine degli anni Ottanta e raggiungibile da ogni punto del Forte Quezzi.

Una storia diversa è quella del complesso residenziale di Pegli 3, meglio noto come le “Lavatrici”, realizzato più tardi seguendo le influenze espressive del metabolismo giapponese, piuttosto che il linguaggio dei maestri del Moderno. Questo enorme complesso residenziale degli anni Ottanta, composto da quattro edifici con oltre trecentosettanta appartamenti, prende il soprannome dalle lastre di cemento col cerchio frangisole vuoto al centro che ne caratterizzano le facciate. Progettato da Aldo Luigi Rizzo con Angelo Sibilla e Aldo Pino, il linguaggio architettonico delle “Lavatrici” sembra essere stato ripreso dalla scuola metabolista giapponese, in particolare dalle forme architettoniche della famosa Nakagin Capsule Tower di Kishō Kurokawa a Tokyo, demolita di recente.

Sebbene i progetti differiscano apparentemente tra di loro, sono molti i punti e i denominatori in comune. Sono tra i casi più discussi di edilizia popolare per la loro “riconoscibilità” urbana, per il loro legame indissolubile con l’orografia urbana, che ha però portato gli abitanti di Genova, quelli che avrebbero dovuto giovare di tali architetture, a riconoscerli come un elemento di invasione sul territorio. Dominano la città, permettono una visuale sul mare e su una Genova inglobata ed incastrata tra il porto e le sue alture, ma da laggiù vengono considerati come un elemento di disturbo, troppo impattanti sul paesaggio.

È dalla loro posizione in altezza che bisogna ripartire per capire che cosa significa realizzare complessi popolari in luoghi del genere. Non si tratta infatti di alternative abitative al tessuto urbano di Genova, caratterizzato da uno sfruttamento intensivo del suolo, come raccontavano allora gli architetti. Si tratta di isolamento, ghettizzazione, ed è nel sentimento di colpa generato da questa consapevolezza che bisogna ripartire.

Il problema sta proprio nel fallimento della progettazione di queste tipologie di architettura popolare, le cui criticità ritornano ancora come costanti nel presente. Le condizioni di isolamento, che hanno poi avviato processi di ghettizzazione delle comunità abitative, nascono dal nuovo modello di sviluppo urbano ideato proprio negli anni della ricostruzione dai grandi architetti. L’idea era quella di disegnare quartieri come micro-città autonome, con i propri servizi commerciali al piano terra: negozi, supermercati, spazi per attività dedicate ai residenti. L’isolamento di una comunità su alture in prossimità della città di Genova ha innescato meccanismi di chiusura rispetto alla realtà urbana, generando degrado e malfunzionamento. Mentre oggi al “Biscione” le cose sembrano andare meglio, alle “Lavatrici” la sofferenza e il senso di imbarazzo di chi le abita sono ancora presenti. Concentrati sul virtuosismo espressivo e sul disegno volumetrico, gli architetti hanno perso di vista l’obbiettivo, ovvero i loro abitanti, disegnando complessi impattanti sul paesaggio e con enormi difetti urbanistici. 

«Ci hanno dimenticato, scrivetelo questo», ci dice una signora che vive in una cellula abitativa delle “Lavatrici” di Genova. Si appoggia sul parapetto di una scala di cemento, accompagnata dai suoi due vecchi cani e dalla compagna, e ci elenca una serie di malfunzionamenti logistici e sociali del complesso per testimoniare quanto ancora dobbiamo recuperare dagli errori del passato. I negozi hanno chiuso per i costanti furti subiti, continuano episodi di spaccio e criminalità, i servizi di trasporto non funzionano e non hai modo di rientrare dalla città oltre le 22. Arriviamo lungo la strada interna del complesso e incontriamo Anna Maria, che da cinquant’anni abita alle “Lavatrici”. Soffre e si lamenta, nel caldo di un pomeriggio di luglio, riparata dal ponte che collega due dei volumi del complesso abitativo. «Questo ponte cade a pezzi, guarda», dice Anna Maria mentre mi indica l’armatura del cemento a vista per via dei cedimenti, visibilmente arrugginita. Alla “bruttezza” delle “Lavatrici” i suoi abitanti si sono abituati, anche se molti di loro, per anni, non sono mai riusciti ad accettarla. Caterina, Teresa e Maria si sono trasferite qui per prime, e ora che i figli se ne sono andati altrove e i mariti non ci sono più, si ritrovano nelle panchine del parco per farsi compagnia. Caterina ci racconta di aver pianto quando le è stata assegnata la casa dentro le “Lavatrici”, perché non riusciva a capacitarsi di vivere in un posto come quello. «Oggi è casa mia, e non la cambierei per niente al mondo, ma all’inizio è stata dura. Quando c’erano i negozi, era già più accettabile, sembrava almeno di vivere in un posto civile. C’era il tabacchino, addirittura il supermercato, ma non sono riusciti a tenere aperto. Per fare la spesa dobbiamo scendere in città». 

Esiste ancora oggi un’emarginazione sociale che è profondamente connessa a una marginalità urbanistica. Dobbiamo rimediare, in qualche modo, alle lacune causate dalla mancanza di ascolto di chi abita questi luoghi. Cristo si è fermato ad Eboli, a Genova, si è fermato dove abbiamo fallito come cittadini che costruiscono per i cittadini

Foto di
Andrea Venturini