Cucina itinerante

Francesco Capuzzo Dolcetta e Guglielmo Chiarapini, in arte FEG

C’è una storia che da qualche mese è il mio cavallo di battaglia quando sono a cena con amici. «Hai sentito di quei due chef che da un anno stanno girando il mondo cucinando nei migliori locali che esistano?», così li ho seguiti in un paio di date, ho vissuto a stretto contatto con loro e li ho fotografati.

Si chiamano Francesco Capuzzo Dolcetta e Guglielmo Chiarapini. Il primo nasce a Firenze nel 1992 e trascorre la sua vita a Roma, dove frequenta il liceo scientifico. Il secondo, classe 1991, nasce a Roma, si iscrive al liceo classico e cresce a Viterbo tra i Monti Cimini e i grandi laghi vulcanici. Dieci anni fa si incontrano per la prima volta nelle aule di Alma, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana, a Colorno.

Terminata Alma, le due strade si dividono: Francesco vola a Roanne, nella cucina di Aux Anges guidata dallo chef Marco Viganò, mentre Guglielmo passa un periodo intenso nelle cucine di Gualtiero Marchesi a Milano, salvo poi raggiungere Francesco in Francia. Dopo tre anni insieme, Guglielmo torna in Italia, nelle cucine del ristorante Da Caino a Montemerano, diventando il braccio destro della chef Valeria Piccini; mentre Francesco rimane in Francia, prima a Le Colline du Colombier, casa di campagna e fiore all’occhiello della famiglia Troisgros, e poi al ristorante Café Sillon a Lione dallo chef Mathieu Rostaing-Tayard.

Calamari

Chiusa la parentesi francese, Francesco torna a Roma e dopo poco tempo viene raggiunto da Guglielmo: insieme prendono la guida del ristorante Marzapane. Sono anni carichi di soddisfazioni ma attraversati anche da grandi difficoltà, prima tra tutte la pandemia. I due chef resteranno nella casetta azzurra di Via Flaminia fino al giugno del 2022. Il loro orizzonte è libero per la prima volta dopo molti anni e i tempi sono maturi per iniziare a pensare a un nuovo progetto condiviso. Il periodo però è complesso e l’onda lunga della pandemia rende difficile per chiunque imbarcarsi in nuove avventure, soprattutto se molto onerose come l’apertura di un ristorante. Questo progetto viene messo in pausa e, al contrario, si cerca di organizzare un tour sfruttando le relazioni costruite con amici e colleghi di tutto il mondo nel corso degli ultimi anni. Così, in poco tempo, Francesco e Guglielmo impostano la base del loro lungo viaggio proprio come il team di una band organizza una serie di date per far sentire il proprio disco.

La prima tappa è il Ronin a Milano, seguita dopo poco meno di un mese dalla seconda, al Chenin di Bangkok, e dalla terza al Lyle’s di Londra. Si sono “esibiti” all’Acetaia San Giacomo a Novellara, poi a Berlino da Barra e ancora nel paesino di Bruton (Inghilterra), dove ha sede il ristorante Osip. A inizio estate entrano nella cucina di Bentoteca a Milano, Le Doyenne a Parigi e, successivamente, Stilla a Verona. Nel mese di agosto portano avanti una residency di venti giorni ad éla!, sull’isola di Patmos. L’estate, ed il tour, si concludono con una tappa a casa di Giorgia Eugenia Goggi a Masseria Moroseta in provincia di Ostuni, per poi finire con una cena al Ristorante Belrespiro a Piacenza. Durante le fermate di questo viaggio, i due chef formalizzano anche il progetto dandogli un nome e un logo: FEG, semplicemente “Francesco e Guglielmo”, diventa il brand con il quale si spostano da un ristorante all’altro proponendo la propria cucina.

Al momento di scegliere le tappe da seguire, opto per Bentoteca a Milano e Stilla a Verona per via delle diversità di panorama e di struttura dei due ristoranti, ma soprattutto per la diversa natura delle due serate che avrebbero avuto come ospiti il duo FEG. Il primo è il ristorante dello chef Yoji Tokuyoshi, aperto nel 2020 in via S. Calocero a Milano, negli spazi che avevano ospitato il ristorante omonimo dello chef, già insignito di una stella Michelin. La serata organizzata in Bentoteca è una cena a degustazione composta da tredici piatti cucinati in parte dalla squadra di casa e in parte da Francesco e Guglielmo. In abbinamento è proposta anche una degustazione di vini ideata dal giovane sommelier di Bentoteca Oliviero Lucchetti. Il secondo, invece, è il ristorante di una giovane coppia di ragazzi veronesi: Silvia Banterle (cucina), e Tommaso Venturini (sala e cantina). Una struttura moderna, con anche qualche camera, totalmente immersa nei vigneti di Colognola ai Colli, nell’est veronese. La serata con Francesco e Guglielmo rientra nella programmazione dei loro “Bar à Vin”, una serie di cene caratterizzate da un servizio informale accompagnato da una selezione di piatti in condivisione cucinati in parte dallo staff del locale e in parte dagli chef ospiti. A ognuno di questi appuntamenti partecipano anche una cantina vinicola (per questa occasione è Cascina delle Rose) e un artista in ambito musicale, che stavolta è Luca Quartarone, in arte Boring Tables.

Varie porzioni di tonno

L’idea è di organizzare un tour sfruttando le relazioni costruite in tutto il mondo nel corso degli ultimi anni. In poco tempo, Francesco e Guglielmo impostano la base del loro lungo viaggio proprio come una band organizza una serie di date per far sentire il proprio disco.

BENTOTECA – Milano

A Milano ci incontriamo alla Stazione Centrale. Guglielmo è già lì da qualche minuto mentre Francesco è in arrivo con un treno da Roma. Chiacchierando durante il tragitto in taxi, tra la stazione e Bentoteca, gli chiedo cosa cucineranno. «Abbiamo una traccia, poi vedremo» mi dice Francesco, e mi mostra un foglio scritto a mano sul quale sono raggruppati alcuni piatti descritti solamente con una serie di ingredienti. «Probabilmente alcuni cambieranno, dipende da che prodotti sono riusciti e recuperare e da come girano le cose oggi».

La cucina di Bentoteca è un rettangolo con al centro una grande isola mentre le linee di cottura si sviluppano lungo i lati. Il pass, che si affaccia sulla sala del ristorante, è una penisola abitata esclusivamente dal capitano della brigata, lo chef Yoji Tokuyoshi e, in sua assenza, dal suo braccio destro: la giovanissima chef Agnese Gigliotti. Uno dopo l’altro arrivano i fornitori e si comincia ad impostare il lavoro. Prima le preparazioni che richiedono più tempo, quelle che hanno bisogno di riposo, quelle meno immediate. Poi, una dopo l’altra, tutte quelle definite “laterali” come guarnizioni e finiture. Ognuno in cucina ha responsabilità, tempi e spazi che dipendono da quelli degli altri. Tutto ciò diventa ancora più complesso quando, oltre ai regulars, si aggiungono anche due ospiti. Francesco, Guglielmo e tutta la brigata di Bentoteca cucinano su ogni superficie disponibile. C’è chi impasta, chi cuoce sulla brace, chi affetta, chi lava, chi sfiletta. Ad un certo punto conto sedici preparazioni che viaggiano in contemporanea: uno spettacolo meraviglioso.

Francesco Capuzzo Dolcetta e Guglielmo Chiarapini, in arte FEG, con lo staff di Bentoteca

Mi sposto continuamente attraverso la cucina cercando inquadrature interessanti e stando attentissimo a non essere d’intralcio ai cuochi che sbattono di qua e di là come palline di un velocissimo flipper. I cuochi generalmente mal sopportano qualunque invasione del loro spazio (già stretto, sovrappopolato e rovente), ma io conosco bene questa strana categoria umana e ogni volta che mi muovo passandogli alle spalle lo faccio dicendo “dietro!”, così da evitare scontri spiacevoli. Cerco di aspettare sempre il momento giusto per saltare da una parte all’altra della cucina. In poco tempo i ragazzi si abituano alla mia presenza e anche alle lampate del flash della mia macchina fotografica.

Il servizio è organizzato in due turni da circa 70 ospiti l’uno: una bella guerra, insomma. La prima mezz’ora serve per tararsi, per prendere confidenza con il campo di gioco e i compagni. Da lì in avanti è prestazione atletica pura, fatta di un misto di agonismo, divertimento, carica, attenzione maniacale ai dettagli e tensione. Mani esperte, piene di scottature e calli, agitano padelle su fiamme roventi, muovono braci, guarniscono con salse, spostano ingredienti con pinze lucide. Ogni membro della brigata lavora a testa bassa ma con le orecchie alzate, pronte a ricevere il prossimo ordine. Tutto si muove in avanti, nulla rimane indietro. Il mestiere del cuoco a questi livelli è fatto di giornate lunghissime che culminano con il servizio. Che è tipo la finale dei Mondiali però tutte le sere, tutti i giorni, tutto l’anno. Roba per pochi, credetemi.

STILLA – Verona

A Verona passo a prendere Francesco in stazione e ci riuniamo a Guglielmo sulle colline veronesi. Mi raccontano la traccia del menù che hanno studiato per la cena da Stilla e organizzano poco alla volta la timeline delle preparazioni.

Francesco Capuzzo Dolcetta e Guglielmo Chiarapini, in arte FEG / Impasto e… paghi mossa

La cucina di Stilla è una delle più luminose in cui sia mai entrato. Un grande vetro rettangolare la separa dalla sala mentre alte finestre la fanno affacciare direttamente sui vigneti. Al centro della cucina c’è una grande isola che ospita i fuochi e un frytop. Tutto attorno, i banchi da lavoro, il forno e attrezzature varie. Il team di cucina di Stilla è composto da Silvia e da due ragazzi che lavorano con lei. Gli spazi qui sono ben diversi da quelli di Bentoteca e muoversi, per me e la mia macchina fotografica, risulta molto più agevole. Spazi ampi e luminosi non significano che il lavoro sia meno duro: le preparazioni iniziano il sabato pomeriggio e vanno avanti veloci fino a poco prima del servizio della cena per riprendere poi l’indomani mattina. Il menù di “Bar à Vin” prevede sette piatti cucinati da Francesco e Guglielmo e anche in questo caso si parte subito con le preparazioni che richiedono più tempo: la realizzazione del fondo di granchio e la pulizia delle animelle.

Il servizio dei “Bar à Vin”, per quanto riguarda la cucina, è forse ancora più complesso rispetto a un servizio normale. Gli ospiti durante queste serate si muovono liberamente dal proprio tavolo per andare a scoprire i vini in mescita nello spazio dedicato ai produttori all’interno del giardino di Stilla. Se durante la prima parte della serata arrivano poche comande alla volta, a un certo punto, complice il numero crescente di calici di vino consumati, la cucina viene inondata di ordini da evadere. Il frytop si riempie di tomini tagliati a metà che verranno poi serviti con le capesante, il bollitore continua a essere riempito di spaghetti che dopo essere stati cotti vengono tuffati in acqua e ghiaccio e conditi con calamari e yuzu. Sulla pentola di ferro si cuociono i chapati che poi vengono “stropicciati” in un panno di cotone e serviti con burro e pomodoro. Uno dopo l’altro i rösti di patate, precedentemente cotti nello strutto, vengono fritti e serviti con una crema di granchio. In cucina ci sono cinque persone ma da quanto vanno veloci sembra siano dieci: è una battaglia di tre ore e mezza senza pause. La macchina di un ristorante trova durante un servizio come questo le sue dinamiche più complesse ed è qui che riesce a dimostrare le proprie qualità. Un servizio che funziona è fatto di tantissime teste diverse che hanno compiti altrettanto differenti ma che puntano verso una sola direzione.

Ci vuole anim(ell)a

Durante le giornate di preparazione nei due locali ho la possibilità di esplorare un po’ alla volta il pensiero di Francesco e Guglielmo. Mentre cucinano ci perdiamo nei racconti di questo mondo: di quella volta che hanno cucinato per quel tale famoso, di quando hanno lavorato con quello chef incredibile, di quella trasferta assurda, di quel pezzo di carne mangiato in quel posto pazzesco. Ogni storia porta con sé memorie di sapori e sensazioni, ogni porta che apriamo ne spalanca altre dieci e le conversazioni attraversano ogni tipo di argomento. Mentre stiamo parlando le loro mani non smettono di tagliare, sminuzzare, mescolare. A un certo punto si interrompono, assaggiano, si guardano. Manca qualcosa. Una piccola pausa ancora e poi Francesco esclama: «ci vuole citron!».

La loro è cucina “alta” perché mette al centro di tutto il prodotto, manipolandolo il meno possibile ed esaltandolo con consapevolezza. Il dogma di FEG non risiede nella ricerca della perfezione, ma nell’istinto all’evoluzione. Un piatto non è mai finito davvero ma è semplicemente a quel punto della sua storia.

Scampi

Per capire meglio questo concetto credo che non ci sia nulla di meglio che parlare di uno dei loro piatti-simbolo: l’animella. Dopo essere stata perfettamente pulita viene ammorbidita nel latte caldo. Francesco non la perde d’occhio un istante. Con le mani, di quando in quando, ne pesca un pezzo, lo tocca, ne sente la consistenza e poi lo tuffa nuovamente nel pentolone. Dopo questa prima fase iniziano le variazioni sul tema cercando ogni volta nuovi, inesplorati, luoghi del gusto. Può essere fritta, cotta in padella o sulla brace. Ad ogni occasione viene accompagnata da pochi altri ingredienti. Nel caso di Stilla, da melone Piel de Sapo e crema di mandorle.

Questo tipo di approccio, questa strada, non ha una destinazione precisa e quindi chi la intraprende deve avere un bagaglio culturale importante, una grande padronanza della tecnica e soprattutto un’anima leggera che sappia essere pronta a cambiare con intelligenza ogniqualvolta si apra una nuova possibilità da esplorare. Queste caratteristiche sono quelle che consentono a Francesco e Guglielmo di poter entrare in cucina e di vivere con leggerezza (apparente) la costruzione dei piatti. Quel “poi vedremo”, quindi, non è altro che l’apertura più completa ad ogni possibilità e, di conseguenza, rappresenta la più pura delle spinte innovatrici.

A tutto questo bisogna aggiungere un’ultima, non ancora citata, caratteristica che ai miei occhi è la più importante per provare a dare una lettura completa del loro lavoro. Entrambi sono due comunicatori naturali e hanno trovato l’uno nell’altro il contrappunto perfetto. Quello che costruiscono è un dialogo continuo, che ormai lavora in automatico e che spesso parte dalla domanda «ti ricordi?», seguita sempre dal nome di un piatto cucinato insieme anni prima, per poi andare più a fondo. A volte indagando la genesi tecnica di quel piatto, altre ricordandone il risultato estetico, altre ancora rievocandone il gusto. Questo continuo legame tra passato e presente, anzi, tra il loro passato e il loro presente, è sicuramente ciò che rende la loro cucina solida e profondamente personale. La storia di uno chef è parte integrante del suo presente. E il futuro, invece?

Meloni Piel de Sapo / Francesco Capuzzo Dolcetta e Guglielmo Chiarapini, in arte FEG

Dopo il tour

Cosa succederà terminato questo tour? Durante i viaggi in taxi, in macchina, in treno e durante le cene e i pranzi che abbiamo passato insieme, questo è stato l’argomento più delicato, l’elefante nella stanza. E ci credo, aggiungo io. Guardare in avanti, visto il momento storico e la grande fase di transizione che la ristorazione e l’alta cucina nello specifico stanno vivendo, non è certo semplice. Per affrontare il tema della gestione dei costi del personale, molti ristoranti stanno scegliendo di proporre delle residency più o meno brevi a chef da tutto il mondo che passano da una città all’altra ogni 4 o 6 mesi. Questo tipo di rapporto lavorativo nel breve termine ha sicuramente dei vantaggi per entrambe le parti: per gli chef è un’occasione di crescita e di confronto con un territorio e un pubblico diversi da quelli a cui sono abituati solitamente e, perché no, anche una bella occasione di spingere il proprio personal branding. Per i ristoratori, dall’altro lato, è un modo per avere sempre qualcosa di nuovo da proporre e da comunicare ai propri clienti creando attesa e curiosità. Alla lunga, però, non è detto che questo sistema possa funzionare con costanza, soprattutto per gli chef. Se da una parte l’esperienza del tour è stata molto gratificante e arricchente per Francesco e Guglielmo, dall’altra ha richiesto e continua a richiedere un gigantesco sforzo logistico nella gestione delle trasferte, nella creazione dei menù e nelle relazioni con gli staff dei vari ristoranti. Per il duo FEG, insomma, è arrivato il momento di trovare una casa.

Bottoni di pasta all’uovo, piselli e salsa di manzo

Ora siamo seduti sotto la pergola dell’Agriturismo Case Vecie, in mezzo alle colline veronesi, c’è un gran caldo ma anche una bellissima arietta. Mentre beviamo un bicchiere di vino parliamo del loro futuro e di come se lo immaginano. Da quando hanno iniziato il tour, mi raccontano, non hanno mai smesso di guardarsi attorno. Trovare la struttura giusta è determinante e visto che il loro è un progetto di vita, non hanno paura di cercare anche al di fuori di Roma, in altre città. Così, da mesi si stanno muovendo in gran segreto su e giù per l’Italia alla ricerca del luogo giusto dove stabilire definitamente il progetto FEG e dove potersi finalmente dedicare esclusivamente a ciò che amano fare: cucinare. Perché sono due giovani di grande talento che meritano uno spazio adatto alle proprie qualità, perché non vedo l’ora di mangiare una nuova versione dell’animella, ma soprattutto per dare alla mia storia un degno finale.

«Hai sentito di quei due chef che da un anno stanno girando il mondo cucinando nei migliori locali che esistano? Ecco, hanno aperto un ristorante».

Foto di:
Jack Ballarini