In occasione dell’uscita dei suoi due ultimi singoli “In peggio” e “Cioilflow“, quest’ultima prodotta in collaborazione con Salmo, abbiamo parlato con Dani Faiv di musica, ma non solo.
L’artista originario di La Spezia ci ha raccontato dei suoi primi passi nel mondo del rap, dall’inizio del sodalizio con Machete fino all’uscita di “Yoshi“, ma anche di tha Supreme, di ciò che gli sta a cuore e del ruolo del rap in Italia.
Vorrei che si riuscisse ad andare oltre l’esaltazione dei beni materiali, perché quello che si può comunicare con il rap è stupendo. Questa musica, anche per colpa nostra, degli artisti intendo, è sfociata in una moda che credo non ne esprima al massimo le possibilità.
Dani Faiv ad Outpump
Ciao Dani, ci sono tantissime cose che vorrei chiederti, ma parto da quella un po’ più ovvia. Come stai trascorrendo la tua quarantena?
La sto trascorrendo a casa a Milano, gioco molto alla play, ho un gruppo online con i miei amici, così ci sentiamo spesso. Poi ho la fortuna di convivere con la mia ragazza e con il cane, quindi bene o male il tempo passa. Mi manca andare in studio, quello sì, però sto scrivendo tanto.
Parlando di musica, al contrario di molti artisti, tu hai deciso di non fermarti e anche – o soprattutto – di non parlare prettamente del COVID-19 nei testi. Cosa ti ha spinto a questa scelta?
I fan. Mi sono rispecchiato in loro, nei loro sentimenti. Se fosse capitato a me, a 15-20 anni, e Caparezza, che mi piace tantissimo, avesse pubblicato nuova musica mentre io ero in casa a non fare niente, per me sarebbe stata una bomba. Volevo regalare loro qualcosa, indipendentemente dalla situazione in cui ci troviamo.
Il 2019 che si è concluso è stato sicuramente un anno molto importante per te, un punto di svolta. A mio parere, anche se può essere passato in sordina, credo ci sia stato un cambiamento, sbaglio?
Per quello che riguarda me, credo di non essere mai cambiato, e il fatto di voler rappare in un certo modo ho sempre voluto dimostrarlo, anche in “Fruit Joint“. Però ora ho raggiunto e metabolizzato una consapevolezza, e cioè il fatto che in Italia si tende a giudicare il libro dalla copertina: non riesci mai a far arrivare a pieno il tuo messaggio se sei preceduto da un personaggio forte.
Portare un contenuto interessante e che potrebbe informare i ragazzini così come far riflettere quelli della mia età, e leggere solo dei “guarda quel buffone con le treccine”, perché è più divertente scrivere questo, è davvero frustrante.
Dani Faiv ad Outpump
Sì, credo di capire, si fermavano tutti ai capelli colorati e non al contenuto dei testi, intendi questo?
Sì, ne è un esempio perfetto la mia apparizione a “Hip Hop Tv” di due anni fa. Ero lì per portare una strofa a cappella e ho scelto di presentarmi con quella che sarebbe stata la futura “Pollo“, la traccia uscita con Nitro in “Fruit Joint”, un pezzo politicamente e socialmente impegnato in cui mi schieravo contro le ingiustizie e i poteri forti. Alle persone non è arrivata una sola barra di quel testo. Tutti parlavano dei miei capelli colorati e del mio aspetto piuttosto che di quello che stavo dicendo. Lì ho capito un po’ l’Italia, e che dovevo un minimo adattarmi per non rischiare di rimanere incompreso, che credo sia la cosa che mi dà più fastidio in assoluto.
Il flow, su cui hai recentemente sentenziato con ironia tu stesso, ce l’hai davvero. Il timbro, la metrica, qualsiasi cosa tu faccia, risulta completamente tua già dalla prima barra. Questa è forse una della doti più importanti se ci si destreggia in un mercato che diventa sempre più omologato?
Hai già detto tutto tu (ride ndr.). No, cerco di non essere autoreferenziale, ma confermo che il mercato è molto omologato e che l’intento mio, e del mio team, è quello di fare qualcosa di diverso. Ma non è una necessità preparata a tavolino, commerciale, è proprio un’esigenza di comunicare altro, qualcosa di differente. Non riesco proprio a fare musica uguale a quella che sento tutti i giorni.
La Spezia non è esattamente la più grande metropoli mentalmente aperta presente sul pianeta. Come si esce dalla bolla?
Sacrificio e impegno. Devi crederci un botto anche quando la gente ti dice di no. Io ho lasciato La Spezia ormai 7 anni fa per venire a Milano, qui mi sono fatto davvero il culo e ho trovato lavoro in poche settimane. Quell’impiego me lo sono tenuto per tre anni e mezzo, ho continuato a lavorare anche mentre facevo i primi concerti. Non potevo ancora immaginarmi che avrei avrei fatto qualcosa come “Yoshi” con Machete, ma non potevo assolutamente mollare.
Stavo pulendo le scale del ristorante in cui lavoravo quando su Facebook mi è arrivato un messaggio da Jack The Smoker. Mi faceva i complimenti per la mia musica e mi proponeva di lavorare assieme.
Dani Faiv ad Outpump
L’impressione che si ha esternamente è che Machete sia davvero una famiglia. Come è iniziato il tuo viaggio con loro?
Guarda è iniziato alla lontana, in quel periodo io appunto lavoravo e registravo, assieme a Kanesh, “Teoria del Contrario”, il mio primo mixtape. Dentro quel disco c’erano diversi featuring tra cui un pezzo con Strage, grazie al lui siamo riusciti a portare la nostra musica in un studio a Milano dove, tra gli altri, ha avuto modo di ascoltarla anche Jack The Smoker. Jack ha sentito l’album e gli è piaciuto tantissimo, mi ha proposto di lavorare assieme ad un disco per poi presentarlo alle etichette, e quale migliore famiglia se non la Machete, che era già la sua ai tempi? Quando ha sentito la mia musica anche Slait è impazzito e, con la cautela che caratterizza tutte le etichette, è iniziato il mio percorso.
Hai citato “Teoria Del Contrario“, l’intro di quel disco si apre con una citazione di tuo nonno: mio nonno mi diceva che la calma conta. Ad anni di distanza, quella calma, è stata la chiave?
Sì, “la calma è la virtù dei forti” e così è stato. Sono stato calmo quando tutti mi dicevano di non crederci, non ho perso il controllo e questo mi ha ripagato. Ad anni di distanza porto ancora avanti quel messaggio, è importante per me.
In questa calma, qual è il pezzo che ti ha fatto pensare di avercela fatta davvero?
Beh, direi “Yoshi”. Se con “Gameboy Color” ho fatto un tour per un anno vedendo una certa risposta, con “Yoshi” l’ho vista il triplo. Chiaramente l’immaginario Machete è stato fondamentale, perché ha permesso a chi di talento di emergere, tante volte è quella la spinta che manca, e non parlo solo per me. Il “Machete Mixtape” è stato importante anche per artisti come Shiva, che poi è uscito con “Bossoli” e diverse hit, e per tha Supreme.
Tu sei stato uno dei primi a credere fermamente in tha Supreme, tanto da affidargli la produzione di molte tue tracce già nel 2018 in “Fruit Joint”, giusto?
Sì, tha Supreme si è occupato di diversi aspetti di quel disco, lui è stato fondamentale per “Fruit Joint”. Prima di quell’album aveva già fatto uscire qualcosa, ma a livello diciamo di coppia, è stato il nostro primo prodotto veramente professionale.
Nel tuo futuro cosa c’è?
Spero tante soddisfazioni e con i prossimi progetti mi auguro di riuscire a far passare un messaggio molto importante per me, che è il superamento di questo attaccamento ai beni materiali e alla loro esaltazione, per dare più spessore alla musica. Il rap, anche per colpa nostra, degli artisti intendo, è sfociato in una moda che secondo me non arriva dove potenzialmente potrebbe arrivare. Quello che si può comunicare con il rap è stupendo. Sai, forse il problema è che in Italia manca un Kendrick Lamar (ride, ndr.).
Dici che è un problema culturale quindi?
In America l’hip hop fa parte della cultura, e parlo anche degli adulti. Ascoltano la musica di Lil Pump così come quella di Kendrick, capendone la distinzione. Mia mamma gli unici rapper che conosce sono quei tre che ha visto passare in televisione ad “Amici”, capito? Non c’è il background, per questo temo che il rap resterà per sempre un genere mai realmente compreso dall’italiano medio.