Il 2016 è stato un anno significativo per il rap italiano. È stato l’anno della consacrazione di una nuova wave stilistica, fortemente innovativa sia dal punto di vista del sound che dell’immaginario, nonché da quello strettamente discografico. Un cambiamento nato nel 2015, con l’uscita di dischi quali “XDVR” di Sfera Ebbasta e “Full Metal Dark” della Dark Polo Gang, ma che solo l’anno successivo si manifesterà con tutta la sua forza.
È l’anno in cui quella che allora era la nuova scuola ha dato una sterzata importante dal punto di vista musicale: oltre ai già citati Sfera Ebbasta e Dark Polo Gang, è l’anno di Izi, Tedua, Rkomi, Ernia, Ghali, Enzo Dong.
Un anno che ha messo le basi per l’evoluzione del sound nel mainstream italiano, forzando il mercato discografico ad accogliere sempre più rap, dando anche vita al processo che, nel tempo, avrebbe modificato irrimediabilmente anche il mondo del pop. Il 2020 è l’anno di uscita di “Dark Boys Club”, per molti il primo di una serie di progetti direttamente collegati a quell’anno: ma ha senso dire che “il 2020 è il nuovo 2016”?

da sinistra, Sfera Ebbasta, Side, Wayne Santana, Tony Effe,
Pyrex, Ghali, Enzo Dong, Tedua, Sick Luke (in basso)
A Roma, la Dark Polo Gang è stata sinonimo di questo cambiamento. Il 2016 ha visto l’uscita di “Crack Musica”, “Succo Di Zenzero” e “The Dark Album”, tre progetti che hanno scolpito l’immaginario lirico e iconografico del gruppo. In poco tempo sono stati moltissimi a innamorarsi del collettivo capitolino, che rappresentava una forte rottura con tutto ciò che il rap italiano era stato negli anni, ispirandosi direttamente all’ondata stilistica che nell’ultimo periodo aveva travolto il rap statunitense. Erano grezzi, crudi, volgari, brutali, diretti e privi di fronzoli. La droga, lo spaccio, le donne, i soldi, l’ostentazione, la passione per la moda e per il lusso: il focus di Tony Effe, Pyrex, Wayne Santana e Dark Side – ai tempi ancora nel collettivo – era tutto lì, non nascondeva alcun tipo di profondità introspettiva o psicologica, e questa monodimensionalità era anche uno dei motivi per cui i fan hanno accolto a braccia aperte il loro approccio.
Una vittoria della forma sul contenuto, la scelta di vedere la musica come una forma di intrattenimento e basta, senza vezzi pedagogici, senza volersi porre come esempi o punti di riferimento per l’ascoltatore. La Dark Polo Gang raccontava quello che voleva, come voleva, senza preoccuparsi minimamente della pioggia di critiche che li circondava. Non chiudevano le rime? Non gli interessava. Non avevano contenuti? Non gli interessava. Non erano un buon esempio per i loro giovani ascoltatori? Non gli interessava. La loro credibilità, la loro “realness”, veniva messa in dubbio? Non gli interessava.

Uno dei più grandi punti di forza della Dark Polo Gang è stata l’impermeabilità alle critiche che avevano come bersaglio le loro scelte stilistiche. Hanno continuato ad essere grezzi, squadrati e cattivi, rendendo quest’immaginario – all’apparenza infernale, in un paese bigotto come l’Italia – affascinante per l’ascoltatore, facendo sì che fossero gli stessi critici a rinunciare a una guerra contro di loro, guerra che non aveva motivo di esistere. La Dark Polo Gang non stava sbagliando nulla, anzi, e i numeri lo confermavano. Gli anni successivi hanno visto il gruppo continuare a macinare cifre sbalorditive, anche dopo l’uscita di Side – che ha però colpito molto duramente i fan del gruppo -, allargando le proprie vedute sia dal punto di vista musicale che di mercato. I primi problemi sono nati proprio in questo momento: se i critici avevano ormai deposto le armi, la svolta – sonora, ma anche visiva – del gruppo ha creato le prime spaccature tra i fan.
Se prima il pubblico difendeva a spada tratta tutto ciò che la DPG incarnava, la nuova versione del gruppo, quella più patinata, che aveva detto sì alla major e ora ammiccava al grande pubblico, ecco, quella ha diviso i fan. Per qualcuno lo spirito originale del gruppo era perso per sempre, sconfitto dai soldi; per altri era stata l’uscita di Side a privare il gruppo di una penna fondamentale; per altri ancora, l’evoluzione sonora aveva rappresentato un’involuzione, un modo di adeguarsi alla concorrenza, piuttosto che sfidarla. Difficile capire cosa si sia rotto nel sistema Dark Polo Gang dopo il 2016, sta di fatto che per i fan nulla è stato più lo stesso. Almeno fino al 2020.

L’annuncio di “Dark Boys Club”, il nuovo mixtape del gruppo, ha infatti mandato tutti i fan in visibilio. Una sorta di isteria di massa ha preso piede rapidamente, si sono tutti convinti che il 2020 avrebbe rappresentato un ritorno alle origini, un “nuovo 2016”, sotto tutti i punti di vista. Provando per un attimo a escludere dall’equazione l’impatto della pandemia globale in corso, che ha ovviamente stravolto quasi tutti i piani, molti indizi lasciano presagire che sarebbe stato un anno fondamentale per tutti i protagonisti di quattro anni fa: erano previsti – e alcuni lo sono ancora – i nuovi dischi di Sfera Ebbasta, Rkomi, Ernia, Tedua, mentre quello di Ghali ha già visto la luce. L’annuncio di “Dark Boys Club” è stato la ciliegina sulla torta per i nostalgici di quel periodo magico. Poi il disco è uscito, e sono arrivate le prime reazioni. Il 2020 è il nuovo 2016? No, e non potrà mai esserlo. Ma non è un male, è solo la constatazione di come le cose cambino, tanto dal punto di vista dei protagonisti, quanto da quello delle circostanze.

“Dark Boys Club” è un prodotto curato, che vede la solita regia di un ispirato Sick Luke – con l’aggiunta di Youngotti, Andry The Hitmaker, Chris Nolan, Charlie Charles, Ketama126 e Oni One alle produzioni – e la partecipazione di molti nomi di peso della scena: Tedua, Lazza, Salmo, Ketama126, Capo Plaza, Drefgold, Anna, Mambolosco, Samurai Jay, Boro Boro, Traffik, Oni One. Un meltin pot di stili e immaginari che, in alcuni casi, sono ben lontani da quello della Dark Polo Gang delle origini. Eppure, sta proprio qui uno dei punti di forza del progetto, che guarda con forza ad un pubblico più ampio, ma meno “pop” dei primi lavori in major. Il gruppo romano abbraccia più stili e allarga i propri orizzonti, ma lo fa a modo suo, portando i featuring nella propria comfort zone, ibridando i diversi approcci, tenendoli insieme con un fil rouge evidente. C’è un ritorno alle origini nelle liriche, più crude, e nelle immagini, provocative, ma l’effetto non è più quello del 2016. La ragione è molto semplice: è impossibile riprodurre l’effetto novità, quando si ripropongono elementi che sono già stati importati.
Il pubblico si aspettava da “Dark Boys Club” qualcosa di impossibile: rievocare lo stesso potenziale di rottura di quattro anni prima, recuperando i tratti distintivi di quell’immaginario. In sostanza, volevano essere sorpresi da qualcosa di nostalgico. Un paradosso impossibile da realizzare, anche perché nel frattempo Tony, Wayne, Pyrex e lo stesso Sick Luke sono cambiati – sia a livello personale che artistico -, si sono misurati con altre realtà, si sono contaminati a livello musicale, hanno cambiato modo di vivere, fatto nuove esperienze, cambiato obiettivi. Hanno condensato gran parte di tutto ciò nel nuovo mixtape, cercando al contempo di disseminare rimandi e riferimenti a ciò che rappresentava la loro musica alle origini. Un compromesso difficile, delicato, che in alcuni casi lascia un po’ perplessi – difficile immaginare delle star della musica italiana ancora alle prese con la trap house -, in altri invece funziona meglio, grazie anche e soprattutto a esperimenti musicali interessanti – vedi alla voce “GANG”, “SAVAGE”, “NO STUPID”.
“Dark Boys Club” è la prova che no, il 2020 non sarà il nuovo 2016. E che, in generale, nessun anno potrà mai essere uguale a un altro. La musica si evolve, i suoi protagonisti si evolvono, ma soprattutto gli ascoltatori si evolvono. Ciò che a 18 anni sorprende e manda fuori di testa, difficilmente lo fa di nuovo a 22. Lo stesso vale per gli artisti, le cui prospettive ed esperienze cambiano, influenzando inevitabilmente la musica. Vedere rapper riproporre musica uguale a quella di quattro anni prima, beh, sarebbe un’involuzione surreale. Il bello però è che la musica non scompare, resta lì: il 2016 è sempre a portata di click, basta aprire Spotify, Youtube, Apple Music – o qualunque player usiate per ascoltare -, digitare “Crack Musica”, o “The Dark Album”, ed ecco fatto. Il 2016 – e le sensazioni che rievoca in voi – è lì che vi aspetta. “Dark Boys Club”, invece, è lì a ricordarvi com’è il 2020 che stiamo vivendo. E servirà a ricordarvelo quando in futuro vi sentirete nostalgici, magari nel 2024. Sperando che nessuno finisca per sostenere che “il 2024 è il nuovo 2020”.