Demna Gvasalia è riuscito a rivoluzionare l’haute couture con Balenciaga?

Al numero 10 dell’Avenue Georges V a Parigi, oltre le porte dell’atelier della storica maison Balenciaga rimasto chiuso per 53 anni, è andato in scena oggi uno degli show più attesi dell’anno, e forse uno dei più significativi. Sotto la direzione di Demna Gvasalia — già a capo delle collezioni prêt-à-porter del brand — l’haute couture ha preso tutta un’altra direzione, rigirandosi su se stessa, riscoprendosi, confermandosi e smentendosi allo stesso tempo. 

Osservare attraverso uno spioncino gli invitati alla sfilata ci ricorda che l’atelier non è più solo un luogo fisico appartenente ad un ricordo d’altri tempi, dove donne elitarie erano solite adocchiare e commissionare i modelli della couture di Cristobal Balenciaga. “Portare la couture in un contesto moderno e comunicarla all’audience odierna” rivelava Gvasalia a WWD l’anno scorso all’uscita della notizia sulla couture mettendo subito in chiaro le sue intenzioni. Gli stessi ambienti in cui si compivano quelle primordiali magie da haute couture nelle mani di Cristobal, oggi sono maturati, sono rilevanti e soprattutto lontani dalle frivolezze legate a quel mondo e pronti a dire la loro. Perché nascosti dietro a vestiti dai colli tubolari e giacche e pellicce con spalle a pagoda, dietro alla facciata di lusso c’è molta umanità. 

Demna Gvasalia ci fa dubitare del significato stesso di lusso. Un concetto talmente astratto e abusato negli ultimi anni da definire fin troppi oggetti facenti parte della mediocrità. I jeans rilassati, gli abiti dai volumi scivolati, gli accappatoi con stole abbinate, i completi in denim con scollo anni ’50, guanti bianchi e cappello space-age sono gli esempi perfetti del bilico costante tra esagerazione e magnificenza che piace al designer georgiano. Questa nuova definizione di lusso — che forse aveva già avuto inizio con la tempesta scatenata dalle Triple S qualche anno fa — non fa distinzione tra una t-shirt, una vestaglia, un vestito da gran gala, un jeans, una felpa o un completo sartoriale. Un cambiamento nella direzione del lusso che è dettata anche dal casting. Ad aprire la sfilata, come da tradizione, è Eliza Douglas, seguita a ruota — e a passo incerto, trascinato e annoiato — da una schiera di modelli che non avrebbero mai varcato la soglia dell’atelier ai tempi di Cristobal. Sono il riflesso del sentimento di outsider dello stesso Demna, che dalla periferia delle Georgia è riuscito a ribaltare la concezione di lusso e ha fatto indossare le sue creazioni di alta moda a una schiera di estranei, che sono diversi, pallidi, straniti, allucinati e soprattutto umani. Perché il messaggio del designer è di inclusione e parla una lingua comune a tutti: il silenzio e la sorpresa. Niente fronzoli, ricami, retorica o messaggi aulici da parte di Balenciaga, ma solo un mormorio assordante.  

Il dialogo tra il vecchio couturier e il dissacrante designer georgiano è incredibilmente attivo e inspiegabilmente silenzioso allo stesso tempo. Quando Balenciaga aveva annunciato il ritorno alla couture l’anno scorso — poi rimandata a causa del Covid — nessuno si sarebbe aspettato un cambiamento così radicale e allo stesso tempo così naturale e legittimo. Le stanze dell’atelier sono piene di silenzio e il défilé è scandito unicamente dai passi cadenzati dei modelli e dal mormorio degli abiti. Si dice che isolando un senso, gli altri siano amplificati. Ed è proprio così che tra un tacchettio e un fruscio di abiti, ci si trova immersi nell’osservazione religiosa delle giacche, dei tailleur, dei vestiti e — perché no — dei jeans della couture di Balenciaga. 

Il concetto è astratto ma i vestiti parlano chiaro e portano un messaggio dissacrante, senza mai mancare di rispetto al couturier fondatore della maison. Molti design di Cristobal Balenciaga sono stati rivisitati, citati e omaggiati in un lavoro sovversivo che ribalta l’eleganza e il banale. Il celebre vestito “Quatre Cônes” dalla collezione couture del 1967 si è tradotto nelle esagerate spalle a pagoda che formano uno scollo a V innalzato verso l’alto, riproposto su pellicce di piume, giacche di jeans, camice e cappotti. Mentre il cappotto-cappa del 1963 viene esasperato in un drammatico cappotto nero dal collo a corolla. Sono tantissime anche le auto-citazioni di Demna che non manca mai di ribadire l’estetica post-sovietica a lui tanto cara e che firma ormai tutte le sue collezioni tra spalle esagerate, taglie oversize e proporzioni sbilanciate. 

“La couture rappresenta libertà creativa e libertà nella moda. Magari è proprio questo il motivo per cui voglio riproporla a tutti i costi. Credo fortemente che la couture possa salvare la moda, attraverso un’ottica moderna” è questa la visione a metà tra il romanzato e l’attuale di Demna Gvasalia. Della collezione couture presentata oggi se ne parlerà per molto tempo e sarà promotrice di riflessioni e dialoghi che fondono moda e società. Perché alla fine non è questo il ruolo della couture nel 2021?