Una delle difficoltà maggiori che hanno le case di produzione nel realizzare i live action a partire da un fumetto o da un anime, è riuscire a restituire quella sensazione di leggerezza e impossibilità che le opere di animazione hanno come carattere intrinseco. Per questo i tentativi sono spesso finiti in un fiasco o quasi, con critiche da parte di un pubblico che preferisce dimenticarlo o considerarlo come uno scherzo di pessimo gusto, un maldestro tentativo partorito solo dal desiderio di lucrare su un franchise fortunato.
È infatti impossibile restituire, anche con le migliori tecnologie attualmente disponibili, quelle atmosfere e il fascino che i film di animazione hanno. Questa essenza di cui si è parlato fino ad ora, è un mix ben bilanciato di tanti fattori: colori, scelta dei personaggi, immaginario, storia, capacità di rendere reale l’impossibile, et cetera. Ciò succede ad esempio per tutti i film dello studio Ghibli, e così per altri piccoli e grandi capolavori che fanno parte dell’immaginario collettivo.
Tra questi c’è anche “Paprika“, film di animazione del 2006 del compianto Satoshi Kon, tratto dall’omonimo romanzo di Yasutaka Tsutsui e da pochi giorni caricato su Netflix. A voler cercare una definizione, questo film si potrebbe sintetizzare come un poliziesco onirico; a volerne ridurre all’osso la trama senza fare anticipazioni, si può dire che un oggetto molto pericoloso viene rubato da un laboratorio dove un’equipe di scienziati lo sta sperimentando, e due persone (un poliziotto e una ricercatrice del laboratorio stesso) lo devono recuperare prima che questo crei un disastro epocale.
Facile fino a qui: non è tanto diverso da un qualunque film di James Bond, ma è proprio ora che inizia la magia, il momento dove l’impossibile diventa reale, perché la chiave di volta attraverso cui questo film è sviluppato, è quella del sogno. Sì, perché l’invenzione rubata permette di accedere ai sogni delle persone per, potenzialmente, manipolarli con i fini più disparati – originariamente per migliorarli e aiutarli ma, una volta finito nelle mani sbagliate, per distruggerne le menti.
Il film è completamente surreale, anarchico, un gioco di scatole cinesi in cui ad ogni visione si scopre un nuovo livello. “Paprika” è un mondo dove realtà e fantasia si sposano e collidono in continuazione, dove la ricchezza dei personaggi e delle loro storie continua ad evolvere dall’inizio fino alla fine. I pensieri dei protagonisti sono infatti complessi e dinamici, molto stratificati, così come lo scenario che li circonda, tanto che fino all’ultimo secondo rimane tutto in sospeso. L’animazione è ricca a tratti ma non barocca, più lineare in altri momenti, mai lenta, i disegni sono bellissimi e altrettanto sono le inquadrature che non a caso sono state “rubate” a piene mani da Christopher Nolan per il suo “Inception”. Proprio “Inception” è il figlio prediletto di “Paprika”, pur non nominandolo mai, è evidente quanto quel film sia debitore all’opera di Satoshi Kon sotto ogni punto di vista, dai presupposti alla sceneggiatura alle inquadrature, ad alcune scene che sono evidenti citazioni al film giapponese.
Ma “Inception” non è “Paprika”, che è un film molto più libero, più onirico, la cui dimensione surreale cresce in modo costante con il passare dei minuti di visione, perché la struttura si fa via via più sfilacciata e sbiadita, i confini che limitano la dimensione della concretezza e quella del sogno sono sempre più blandi fino a collidere. Ed è proprio in quel momento che il film tocca il suo apice, nella confusione, nell’anarchia, quando non c’è più niente a tenerlo insieme ma solo lo sguardo del regista, che con un colpo da maestro lo fa quadrare sul finale. Anche in questo suo perdersi per poi riprendersi, “Paprika” si lascia trasportare dalla dimensione del sogno, di cui prende proprio le sembianze per la capacità che ha di stare in piedi attraverso dei salti che assomigliano a voli pindarici, e per la sua grandiosità visiva.
Non a caso Myss Keta, una cantante da sempre famosa per la contaminazione dei suoi pezzi, ha dedicato il titolo del suo secondo disco al film. Ma non solo lei, altri artisti hanno guardato all’opera di Kon come fonte di ispirazione, si può pensare per esempio a Takashi Murakami che si è riferito a una delle scene più disturbanti di “Paprika” per la cover di Garage Magazine realizzata per Billie Eilish.
“Paprika” è un film necessario per tutti gli appassionati di anime e non solo, un’opera monumentale che solo in quanto film di animazione poteva esistere, e il fatto che sia arrivato su pochi giorni fa su Netflix lo rende imperdibile per tutti coloro che avranno voglia di immergersi nel sogno di Satoshi Kon.