È il momento di parlare di hyperpop

Ascesa, caduta e frammentazione dell’hyperpop, il più serio tra i generi superficiali.

Nella Virginia del Nord le temperature invernali sono più miti rispetto a quelle di New York. Eppure, quando hai quindici anni e sei uno studente alla high school, è probabile che i genitori ti costringano a trascorrere in casa ogni notte che Dio manda in terra. È quello che succede quotidianamente al giovane Parker, transgender quindicenne che tutti in rete conoscono come osquinn. Allo stesso modo di molti suoi coetanei, il giovane passa le proprie serate su Discord, una piattaforma di messaggistica e VoIP destinata inizialmente ai gamer, ma oggi diffusissima fra tutta la GenZ

Assieme ad osquinn, un centinaio di altri ragazzi sparsi su tutto il territorio americano fanno zapping fra i thread di Reddit, le serie Netflix e Twitter. È proprio su quest’ultimo social che, durante una notte di febbraio del 2020, Parker litiga con un altro utente, forse un amico virtuale o un hater. Concentrarsi sui compiti diventa impossibile, così decide di rifugiarsi su Discord, dove si imbatte casualmente in una base glitch (ovvero piena di “errori”, stridii e distorsioni) prodotta da un ragazzo dell’Ontario, che si fa chiamare blackwinterwells

Ancora scosso dal litigio, osquinn registra sopra questo beat la sua voce ferma, inalterata, con un’attitudine che ricorda a tratti quella di alcuni frontman dei gruppi punk-pop nei primi anni 2000. Nel caricare la traccia su SoundCloud, Parker decide di approfittare del servizio di distribuzione DistroKid e la droppa anche su Spotify. Da allora, gli utenti del popolare servizio di streaming hanno riprodotto “Bad Idea” – questo il titolo del bizzarro sfogo di osquinn in salsa hyperpop – più di un milione di volte.  

Ma facciamo un passo indietro. La sorprendente storia dell’hyperpop inizia formalmente nel 2014, quando il termine viene utilizzato per la prima volta nel descrivere il suono della PC Music, un’etichetta discografica londinese che portava lo stesso nome del collettivo artistico fondato dal produttore inglese AG Cook, figura che ha permesso l’ascesa – tra gli altri – dell’artista electro-pop SOPHIE, scomparsa di recente, e della superstar Charli XCX, divenuta negli anni una vera e propria icona del movimento hyperpop. 

Quasi contemporaneamente, nel 2015, dall’altra parte dell’Oceano e più precisamente a St. Louis nel Missouri, nascevano i 100 Gecs, un duo composto da Dylan Brady e Laura Les, che sono considerati le prime star della wave hyperpop americana. L’anno d’oro dei 100 Gecs è il 2019, quando esce il loro omonimo album di cui tutta l’America parla, prodotto da Dog Show Records. Pitchfork assegna al disco un punteggio di 7,4 su 10, definendolo “uno dei dischi pop sperimentali più affascinanti ed esilaranti dell’anno”. Il New York Times lo posiziona al primo posto nella classifica dei migliori album del 2019. Secondo Will Pritchard, critico musicale al The Independent, questo disco ha contribuito a consolidare lo stile eclettico dell’hyperpop, portando il genere “alle sue conclusioni più estreme ed orecchiabili: basi trap da studio, elaborate e distorte quasi fino alla distruzione”.  

Con i 100 Gecs inizia appunto la frammentazione dell’hyperpop, ma anche il suo passaggio a cultura dominante. Un passaggio simile a quello che ha fatto il rap negli anni ’90, con la differenza che oggi il web ha contribuito ad accelerare questo processo. Un ruolo chiave l’ha avuto Spotify, sdoganando l’hyperpop attraverso una playlist omonima che ha visto la luce proprio nel 2019 e sta alla base del successo di molti dei singoli di questo genere, come ad esempio “Money Machine” dei 100 Gecs, che ha attualmente superato i 72 milioni di stream sulla piattaforma. Sull’onda del successo di questa raccolta, anche Apple Music ha deciso di lanciare poco dopo la sua playlist hyperpop, chiamata glitchcore.  

Ma prima di essere riconosciuto come movimento autonomo, l’hyperpop ha risuonato inascoltato per anni nelle urla sofferenti di Alice Glass, nell’inquietante minimalismo degli Xiu Xiu e nelle cantilene cyberpunk di Arca, che assieme a svariati altri artisti hanno contribuito alla formazione di un’estetica estrema che pone enfasi su elementi contrastanti come tenerezza, angoscia e femminilità tossica. Nella maggior parte delle copertine dei singoli e degli album hyperpop il layout è affollato di elementi Baddie e Slimepunk, con riferimenti al mondo Disney, ai manga giapponesi e ai meme. Una delle poche eccezioni risiede proprio nel già citato album dei 100 Gecs, che raffigura i due artisti di spalle all’obiettivo fotografico e di fronte a un pino, con una posa che ricorda vagamente quella dei Crystal Castle nell’omonimo album del 2008. Ogni mese centinaia di appassionati si recano a visitare quell’albero, che su Google Maps è stato addirittura inserito tra i punti di riferimento storici a Des Plaines, nell’Illinois.  

In bilico tra Minecraft e gli psicofarmaci, la pandemia ha sicuramente determinato una diffusione produttiva del genere hyperpop, soprattutto da parte di quella generazione che più ne ha sofferto la solitudine. Ed è così che nel 2020 l’hyperpop diventa – a tutti gli effetti – quella musica che unisce tanti bambini tristi chiusi nelle proprie camerette. Una sorta di outsider music della Generazione Z, prodotta in maniera collaborativa nei server Discord e data in pasto al web, consumata all’interno dello stesso ambiente in cui aveva preso vita. Questa produzione dal basso finisce per frammentare ulteriormente il genere e ibridarlo con le influenze e le sfumature che ciascun artista vuole via via concedergli. Tra queste c’è sicuramente la trap, che cerca una via di sviluppo anche nell’hyperpop, in particolare nei suoi beat. Un ruolo chiave ce l’ha – come spesso accade – la figura del producer, che usa gli stessi elementi 808 di Pi’erre Bourne e di TM88, come ad esempio i charleston e l’utilizzo potente della drum machine.  

Non è un caso che nella playlist hyperpop di Spotify, della quale abbiamo parlato, siano comparse nel giro di qualche mese anche tracce di Yung Lean, Trippie Redd, Playboi Carti e Lil Uzi Vert, scelta che ha fatto inorridire i puristi dell’autotune. Al di là della scelta “etica” di far convivere in una playlist di genere i brani di un liceale quindicenne con quelli dei mostri sacri del nuovo hip hop, è innegabile che la frammentazione dell’hyperpop stia influenzando sempre di più i lineamenti musicali e artistici del rap, negli USA ma non solo.  

Oltre al fenomeno tha Supreme, che fin dalla sua nascita artistica ha condito il proprio progetto con alcuni fra i principali ingredienti dell’hyperpop, molti altri insospettabili della scena italiana hanno iniziato ad osservare il fenomeno con interesse crescente. Gli amanti della sperimentazione si confermano essere – come sempre – i produttori. Figure come quella di Greg Willen, che su “DUE E ZERO” ha prodotto gli FSK come fossero i 100 Gecs italiani, o quella di Sick Luke, che ha fortemente voluto i Pop X in uno dei brani del suo ultimo progetto “X2”, stanno avvicinando la nuova scena rap alla stilosissima incoerenza dell’hyperpop. Non mi stupirei quindi se nei prossimi mesi iniziassero a fioccare collaborazioni tra le due correnti, avvicinate dal desiderio e dalla necessità. Da parte mia, inizio a buttare lì qualche proposta: i sxrrxwland ce li vedrei bene con Villabanks, i Tauro Boys con Tedua. A Troyamaki – invece – farei chiudere un bel feat con Capo Plaza.