Emilio Pucci e Supreme hanno più cose in comune di quanto si possa pensare

In molti si chiedono quale sia il segreto dietro al successo di Supreme. Cercando questa risposta ci si imbatte nelle origini della realtà concepita da James Jebbia e allora è possibile comprendere che si tratta di un meccanismo del tutto spontaneo. Difficile da credere, eppure le cose sono andate esattamente così. La sua era un’attitudine naturale, che cercava solamente di elevare il contesto dello streetwear legato alla scena skate attraverso un approccio diverso dagli altri. Ogni prodotto era (ed è tuttora) curato nei minimi dettagli e spesso si avvale di ricche citazioni artistiche o culturali per rendere speciale il design. È seguendo questa filosofia che sono quindi nate le prime collaborazioni, un elemento fondamentale nel carattere del brand, che negli anni ha saputo stupirci confermando un valore aggiunto nella versatilità e nel sapersi guardare attorno a 360° pur restando sempre fedele a se stesso. Così, nell’anno in cui Supreme ha inaugurato il suo primo store in Italia, assistiamo a una partnership che celebra il patrimonio del Bel Paese nella moda, quella con Emilio Pucci, un’unione sicuramente inaspettata, ma tutt’altro che insensata.

Che cosa potrà mai avere in comune un eclettico uomo nato da una nobile famiglia di Firenze nel 1914 con un brand di skateboard fondato tra le strade di New York ottant’anni dopo? Assolutamente niente, si potrebbe pensare, ma in realtà ripercorrendo la sua storia scoprirete che questa può benissimo essere considerata come una tra le partnership più azzeccate di sempre.

Il marchese di Barsento Emilio Pucci già da adolescente sogna in grande e punta all’America, scegliendo di continuare gli studi in una terra dove il trasformarsi dei sogni in realtà non sembra essere solo una leggenda, come vedremo più o meno un secolo dopo, quando un negozietto di skateboard con il nome “Supreme” riuscirà a creare un vero e proprio cortocircuito nel fashion system. Già dall’inizio una delle sue più grandi passioni dopo la pittura è lo sport e combinando questi due interessi si ritroverà in modo del tutto casuale a disegnare le divise per la squadra della propria università, il Reed College dell’Oregon, dimostrando uno spiccato talento. Possiamo dire che fu esattamente questo il suo primo approccio alla moda, ma tra esso e la fondazione della maison con il suo nome succederanno molte altre cose.

Siamo solamente all’inizio della storia e dobbiamo di nuovo interrompere il flusso per farvi presente come quanto appena detto risieda anche nello spirito di James Jebbia, il quale, arrivato dall’Inghilterra, ha iniziato a muovere i primi passi nell’ancora embrionale scena streetwear di New York notando sin da subito che in essa vi era del potenziale ancora tutto da esplorare. Quando nel 1994 aprì le porte del suo skate shop a Lafayette Street, era impossibile non notare come l’atmosfera caotica e massimalista che ruotava attorno all’ambiente skate fosse stata convertita in un capolavoro estetico che dava l’impressione di trovarsi in una galleria: Jebbia fu capace di unire due dimensioni che messe assieme sembrano un ossimoro, ossia l’arte e lo sport, e canalizzarle all’interno di un unico oggetto che nessun altro avrebbe mai preso in considerazione a tale scopo, ossia le tavole da skateboard.

Torniamo ora ad Emilio Pucci, che una volta scoppiata la guerra verrà arruolato come aviatore, ritornando nel suo Paese d’origine per poi trasferirsi in Svizzera alla fine del conflitto, dove frequenterà assiduamente le piste da sci. Fu proprio qui che un’amica gli chiese per puro sfizio di disegnare per lei un nuovo completo da sci, vista la cura che aveva nel suo stile personale. Il caso volle che in quel preciso istante la fotografa Toni Frissell si trovò lì e decise di immortalare proprio quel modello per il numero di dicembre della rivista Harper’s Bazaar. Una semplice fotografia bastò a conquistare nel vero senso della parola i lettori d’oltreoceano, i quali rimasero estremamente colpiti dalla sua visione inedita che coniugava sportività e sensualità.

Questa esperienza casuale farà capire a Pucci la via da seguire. Restando fedele ai suoi vissuti, gli esordi riguarderanno quindi soltanto lo sportswear, o più precisamente l’abbigliamento da sci, il quale gli consentirà di perfezionare la propria visione estetica esprimendo al meglio quel concetto di comodità e stile e rivoluzionando l’immagine dello sciatore tradizionale, così come Supreme farà con la figura skater.

Alla base dei suoi completi ci sono tagli funzionali ma eleganti, che attraverso il minimalismo permetteranno di essere indossati in tutta praticità pur non rinunciando all’eleganza (sentendo questo, non viene in mente forse lo stesso approccio adottato dalla mitica Box Logo e dalle primissime t-shirt di Supreme, le quali donavano un immagine completamente minimale ma al tempo stesso comoda e funzionale per chi passava le giornate tra un trick e l’altro?). Tuttavia, per una mente così creativa limitarsi a questo singolo settore non era abbastanza e fu così che, dopo la parentesi legata allo sportswear, Pucci amplierà i propri orizzonti al prêt-à-porter femminile. Per farlo decide di fare ritorno a casa in tutti i sensi, allestendo la sede del suo brand nel palazzo storico di famiglia, laddove potrà sperimentare in tutta libertà l’utilizzo di materiali di propria invenzione, tra i quali ricordiamo il velluto artificiale, il tessuto elastico chiamato Emilioform e il jersey in organzino di seta.

Nonostante l’evoluzione e il cambio di comparto, il creativo si impegnerà a mantenere intatti gli stessi valori che già aveva professato dedicandosi allo sport. Il risultato sarà dunque una nuova concezione dello stile informale, legato in questo caso da una ricerca meticolosa della comodità e dedicato a un’ideale di donna sempre più emancipata che non rinuncia alla propria sensualità ma al tempo stesso si trova a fronteggiare le necessità di una vita più dinamica.

Negli anni ’10, più o meno lo stesso procedimento verrà intrapreso anche da Supreme, che presa consapevolezza del proprio successo decise di scommettere sull’espansione da un piccolo negozietto locale a un vero e proprio brand con punti vendita situati in tutto il mondo e collezioni sempre più ampie, capaci di offrire prodotti che si mettevano ormai alle spalle la loro originaria circoscrizione per abbracciare sempre di più l’essenza della moda, anche grazie a unioni con i marchi high-end.

Nominando Emilio Pucci però non si può fare a meno di pensare alle sue eccentriche e fantasiose stampe. Già, le grafiche saranno infatti uno degli elementi più importanti che andranno a caratterizzare la sua carriera, come anche la passione per i colori, ritenuti espressione assoluta di gioia.

La gioia è una delle cose più importanti che ho introdotto nella moda e per farlo ho usato i colori.

Emilio Pucci

Dall’apertura della prima boutique a Capri nel 1950 alla prima sfilata a Firenze del febbraio 1951, fino alle più memorabili collezioni, come l’indimenticabile Gemini 4 ispirata allo spazio, quella del 1956 che rende omaggio alla Sicilia e quella del 1959 dedicata a Botticelli, la cosiddetta “Puccimania” è stata accompagnata sempre dall’inconfondibile utilizzo di motivi astratti e geometrie psichedeliche ma raffinate. Le infinite cromie erano il mezzo prediletto per liberare la propria fantasia e trasformare la moda in emozione. Pensate che ad oggi la maison è posseduta da LVMH e registra la bellezza di ventimila stampe d’archivio.

In tutto questo si aggiungono altri due elementi che sono stati concepiti in tempi del tutto non sospetti: il concetto di total look che va persino oltre al vestiario e l’intraprendimento di alcune collaborazioni. A Emilio Pucci lavorare esclusivamente all’abbigliamento gli stava ormai troppo stretto e così nacque l’idea di allargare il proprio nome anche al lifestyle. Per renderlo possibile erano quindi necessari degli accordi con aziende specializzate e così vennero concepite le prime partnership: Ermenegildo Zegna, Swarovski, Ford e Piaggio. Non solo, nacquero delle unioni anche con la NASA per la creazione delle uniformi per la missione Apollo 15, con la Braniff International Airways per le divise delle hostess e con lo Stato Italiano, assieme al quale progettò le tenute dei vigili urbani.

Arrivati a questo punto, probabilmente vi sarete resi conto di quante siano le similitudini tra Emilio Pucci e Supreme anche in questa fase. Avendo più familiarità con il colosso newyorkese dello streetwear, sarete a conoscenza di quanto sia frequente l’uso di grafiche variopinte e stampe che sanno allargarsi su tutta la superficie delle silhouette per esprimere una certa dote nel citazionismo, variando ad esempio dai volti della cultura pop a opere di artisti underground, ma anche cartoni animati e messaggi provocatori. Inoltre, come vi abbiamo già anticipato, anche le innumerevoli collab per allargarsi a tutto tondo senza escludere la realizzazione dei più improbabili oggetti sono ormai un tratto distintivo dell’etichetta statunitense e della sua versatilità: se nel 1978 lo stilista italiano realizzava per esempio una versione personalizzata della Vespa, nel 2019 Supreme lanciava una Honda CRF 250R in edizione limitata con tanto di logo in bella vista.

Ecco perché l’annuncio di questo inatteso sodalizio si rivela in realtà molto più fondato di quello che si possa immaginare.