La domanda è provocatoria, ovvio. Ancora di più dopo che la sezione tedesca dell’UNESCO ha dichiarato la “Technokultur in Berlin” un patrimonio ufficiale (…ma occhio: lo ha fatto anche con cose un po’ così come la Kircheeoner Perchtenlauf, una festa locale bavarese dove ci si veste da pupazzoni pelosi, quindi il tutto va preso un po’ con le pinze): com’è possibile che ci si possa porre una domanda del genere?
Il Watergate però sta per chiudere, il Wilde Renate pure: vittime della riqualificazione urbana di Berlino orchestrata tra gli altri da Gijora Padovicz, il cui gruppo immobiliare anni fa ha fatto incetta di palazzi quando tutto a Berlino veniva via a due lire permettendo poi che in questi palazzi si creassero situazioni attrattive; e ora passa all’incasso, portando gli affitti a prezzi di mercato, che i club in questione – ben abituati – trovano oggi insostenibili.
Ovviamente resta il Berghain. Che però per anni ha pagato di affitto la cifra simbolica di un 1 euro all’anno, in cambio del farsi carico della ristrutturazione dell’edificio monumentale che lo ospita, originariamente in condizioni di abbandono: è così che nei primi anni l’ingresso costava 5 euro, poi 8 (…e c’era già chi si scandalizzava per gli 8). Ora, si va verso i 30 euro. D’altro canto, oggi pure il Berghain deve pagare un affitto a prezzo di mercato.
Già. La “Technokultur in Berlin” così come la conosciamo, inclusiva e “orizzontale”, si è sviluppata soprattutto grazie alla tabula rasa post caduta del Muro durata almeno fino al primo decennio dei 2000, quando il costo degli immobili a Berlino era ridicolo. Lo si sottolinea troppo poco. Era facile avere degli spazi, era facile avviare una serata portando avanti una linea artistica non per forza commerciale.
Lo spirito libertario e artistoide della città – da sempre una sua caratteristica, per mille motivi – ha fatto il resto. Si è creata così una scena importando la musica più radicale, “nuova” ed estrema in circolazione tra fine anni ’80 e primi ’90, quelli della caduta del Muro: quella techno creata a Detroit da un manipolo di visionari pronti a “scarnificare” il funk e a portarlo nell’iper-futuro digitalizzandolo.
Una scena bellissima. Particolare. Così bella e particolare da diventare famosa nel mondo, e profondamente riconoscibile. La techno è diventata infatti più sinonimo di Berlino che di Detroit, o di qualsiasi altra città. Giusto l’Inghilterra, con i rave, e i fenomeni come la Riviera romagnola primi anni ’90 o Ibiza, ha trovato il modo di rivaleggiare. Ma mai col rigore altero, altezzoso e controculturale di Berlino.
Ora però tutto questo sta per finire. Anzi: in buona parte è già finito. Come mai? Per anni, dalle autorità centrali tedesche è stato concesso a Berlino un disastroso disavanzo di bilancio. Da un po’ di tempo, però, la festa è finita: basta manica larga post-riunificazione, il Comune di Berlino adesso deve fare cassa, ridurre il debito pubblico. Il modo più semplice? Cedere terreni ed edifici ai privati. Cederli a prezzi di mercato. Chi li vuole, anche solo in affitto, deve pagare soldi veri.
Non c’è nulla di strano. Nulla di cattivo. Dopo gli anni pionieristici della prima techno, del primo Tresor, dei primi rave, delle prime saldature tra Berlino e Detroit, il fenomeno è esploso talmente tanto da diventare (anche) una macchina da soldi. Per quale motivo sarebbe dovuto restare estraneo alle dinamiche commerciali, alla speculazione immobiliare?
Tutto questo non lo capisce solo chi ha visto Berlino essenzialmente come un posto dove il party poteva andare avanti 24 ore su 24, dove il Bar 25 o il Berghain potevano stare aperti tre giorni di fila, dove potevi andare a fare la spesa agli Späti mezzo nudo in completi sado-maso, dove nessuno ti guardava male se assumevi droghe. Tutti aspetti veri, per carità: ma erano e sono la schiuma più superficiale della questione, non la sostanza.
La partita si gioca sui soldi. E i soldi dicono che ora Berlino deve giocare alle regole di tutti. Non solo: è pure contenta di farlo. Chi ha creato infatti e fatto crescere l’ecosistema del clubbing berlinese tra il ’90 e il 2000 oggi non ha più 20 anni, ne ha 40/50, e vuole guadagnare bene, gli ideali non gli bastano più. Gli ideali oggi semmai sono un marketing tool: servono a confezionare meglio la merce, la merce che vendi a chi di Berlino vuole gustare la schiuma, il divertimento effimero da weekend, e non la sostanza. Acquirenti facili. Bulimici. Di bocca buona, e tanto affamati.
Non è solo colpa dei palazzinari. Non è solo colpa dei Gijora Padovicz. Se perfino Berlino – come del resto anche Londra o l’Italia – sta perdendo sempre più i club dallo spirito più autentico e puro, è perché ormai si è imboccata per vari motivi, anche comprensibili, anche fisiologici, la via per cui il clubbing è un business, non più un ideale.
L’unico modo per tornare alla radicalità e alla purezza sarebbe allora forse ripartire da zero. Iniziare da qualcosa di nuovo, diverso, inaspettato, qualcosa di troppo sotterraneo per essere intercettato dai radar dell’hype e dell’industria culturale. Chi (ri)vuole la vera “Technokultur in Berlin”, paradossalmente, potrebbe dover volere la fine dei club e della scena techno così come è oggi a Berlino, per riconquistare quel senso di sfida e di novità.
Ieri la techno a Berlino era un’ideale, una sfida (ed è per questo che ha sedotto così tante persone, incidendo nel profondo delle loro vite). Oggi, un luna park. Non c’è niente di male nei luna park. Anzi. Ma non sarà mai un luna park a cambiarti l’esistenza, e a farsi “Kultur”. Mai.