Il cuore che scoppia nel petto, lo sguardo sicuro verso l’orizzonte, la lingua che seduce la verità, l’estro che lo sfida a fare ancora di più. Tedua è un prisma di luce. Da uno stesso raggio si possono propagare infinite sfumature. Questo suo essere dieci, cento e mille lo rende speciale, ma allo stesso tempo costantemente in bilico fra l’Inferno del come alcuni lo vorrebbero e il Paradiso del suo essere artista senza catene. “La Divina Commedia”, il nuovo album, quello più importante e atteso nella carriera del rapper genovese, uscirà nel 2023 dopo una lunga pausa, dopo il Purgatorio della pandemia. Il momento è vicino: ci viene anche confermato che il primo singolo è atteso a ottobre di quest’anno. Il suo viaggio, ispirato a Dante, è profondo e viscerale, è un lampo in cui rivedersi: perché tutti, almeno una volta, guardandoci dentro, ci siamo domandati: chi sono io? E così mentre Mario Molinari, questo il suo vero nome, si guarda in un grande specchio, in attesa dello shooting che scandaglia le sue varie personalità, quasi come uno schizzato Robert De Niro in “Taxi Driver”, si tuffa nei suoi stessi occhi spalancati. Quella domanda da cui tutto parte è un riflesso spontaneo: chi è oggi Tedua? Il rapper di strada che sputa rime fra i vicoli di Genova o l’artista che collabora con il pop patinato? «Entrambi – risponde con decisione – la mia vera anima è nel nuovo album. Tutte le collaborazioni che ho realizzato sono uno scambio di stima reciproca. Sono versatile sin dalle origini: non mi sono dimenticato da dove vengo, ma è altrettanto vero che in questi ultimi anni ho cercato di allargare i miei confini, andando anche oltre l’hip hop».
Inizia a curiosare fra i primi abiti, a capire come gli starebbero addosso, come potrebbe trasformarsi. Per essere lì si è alzato alle 9 del mattino. Un miracolo per lui che, come un licantropo del rap, vive solo di notte. Un sorriso. Ma poi esita, è come se facesse un passo indietro. «Sono sincero quando dico che dal 2019 non credo di avere ancora espresso la mia vera arte, di aver mostrato come mi sono evoluto dagli inizi a oggi. Il singolo “Elisir” del 2019 – ammette – è stato un gioco. Nel 2020 ho fatto un doppio Disco di Platino con un mixtape in distribuzione, “Aspettando la Divina Commedia”, in un momento storico in cui non si potevano fare concerti. Puntai più sulla quantità che sulla qualità. Anche in quel caso la dimensione ludica della musica aveva preso il sopravvento. E poi quella era pandemia music: non la considero realmente un’espressione di quello che sono. “La Divina Commedia”, invece, è la mia vera manifestazione». La pandemia music è un mostro da scacciare. Mario si agita, si “invexendâ”, come direbbero i suoi amici genovesi, non vuole lasciare parole al caso. «È musica che, per forza di cose, è influenzata da quel periodo storico. Il mio nuovo disco inizia il suo cammino nell’agosto del 2021 – svela – tutto quello che ho scritto prima l’ho cestinato: questo non vuol dire che non avessi in saccoccia delle belle canzoni, ma alla fine non ho voluto che la mia arte, più o meno in profondità, venisse influenzata da un momento difficile, per me e per tutti. Ogni pezzo lavorato durante il lockdown ne riflette alcune ombre. Solo Marracash, con “Noi, Loro, gli Altri”, facendo prevalere l’intenzione e la voglia di esprimersi, è riuscito a mettere in discussione la pandemia music». Nella scena finale del video di “Fashion Week” del 2018 Tedua viene ammanettato, fatto salire su un’auto, e poi risbuca dall’altra parte della vettura, in passerella e vestito elegante. È come se in realtà fosse rimasto su quel mezzo: «Non ho vissuto il blocco dello scrittore, ma realizzare l’album più importante della mia vita dentro la bolla pandemica mi ha fatto fermare a riflettere in modo profondo. La scena che hai citato simboleggiava il passaggio da uno status all’altro: sì, in pandemia è realmente come se mi fossi fermato su quell’auto, è come se non fossi mai sceso perché non aveva senso scendere».
I primi scatti fotografici arrivano in sequenza. Le pose, in realtà, per lui sono movimenti naturali. È nel suo habitat: la moda è sempre stata un suo grande sogno anche quando per le strade di Cogoleto si vestiva con le magliette di una taglia più piccola perché non possedeva altro. Quando nel 2017 arrivò poi a sfilare per Dolce & Gabbana non gli sembrava vero. Ma ora la sua priorità è puntualizzare: «Ho lavorato su di me. Per essere meno logorroico e meno egocentrico. Mi sono concentrato sul metodo e anche sulla crescita della tecnica musicale. Non ti nascondo che, nel periodo più duro del Covid, stavo perdendo autostima. Ho provato sulla pelle l’improvviso spegnimento della fama e del lavoro. Se chiudo gli occhi faccio cinema, scrivo e volo con la mente, ma è chiaro che, se improvvisamente mi viene azzerata l’esistenza e rimango bloccato a casa, la penna ne risente». Prende un respiro. Lascia andare un peso: «Non potevo girare l’Italia, andare a trovare un amico del quartiere o semplicemente fare un’esperienza. “L’album deve spaccare”, mi dicevano tutti. Io dentro di me rispondevo: “Ma se siamo in un periodo in cui non ha senso spaccare, perché farlo uscire?”».
Cambia registro. Scherza sulla leggera rasatura a lama a cui si sottopone per farsi applicare un cuore in rilievo sul petto, simbolo della sua sensibilità. Poi, però, porta il pugno chiuso verso il mento come la statua di un antico pensatore: eccolo il primo tuffo profondo dentro la sua opera. «La pandemia è stata il Purgatorio nel mio viaggio dantesco – spiega – quando si è fermato tutto ho dovuto capire che cosa volessi comunicare per davvero. Io non racconto mai quello che il pubblico vuole sentirsi dire. C’era poco da festeggiare. Non voglio fare la vittima, ma sono stato malissimo. Il mio ruolo è spaccare tecnicamente, è trasmettere energia e lasciare alle persone qualche cosa addosso che le faccia sentire vive, le ispiri. Se voglio avere un impatto forte, devo trovare il momento giusto per far uscire le mie canzoni, se no tutto ciò non ha senso». “La Divina Commedia” racconta questo disagio? «In modo molto velato. Non voglio trasmettere negatività. Voglio rilasciare una vibe positiva. Voglio dimostrare quanto ne sono uscito più forte. È il mio viaggio dall’Inferno al Paradiso – continua Tedua – dentro il disco, più nello specifico, parlo del lato oscuro di chi ce l’ha fatta. Come Dante raccontava l’ipocrisia della classe politica e di un certo ceto sociale, anche io affondo nei lati più cupi dell’umanità che mi circonda».
Torna con la mente allo shooting. Chiede piccoli consigli su alcuni outfit. E più parla del nuovo disco, più si alimenta come una fiamma: «Charlie Charles, Chris Nolan e Sick Luke ci sono. La triade non poteva mancare. Ho lavorato anche con Davide Simonetta, dopo la realizzazione di “Sapore” ci siamo avvicinati, e anche con Night Skinny. L’intenzione era quella di fare musica insieme ad altri proprio per controbilanciare l’isolazionismo pandemico». I demoni gli si proiettano davanti. «Tanti rapper rivendica- no il “ce l’ho fatta, ce l’ho fatta”. Raccontano il cammino verso il successo. Ma che cosa avviene dopo che ci si è realizzati? – si domanda – la verità è che dopo che ce l’hai fatta, ce la devi rifare ancora. È una ripartenza continua in cui sbucano, come mostri, compromessi, tempistiche, richieste, aspettative, pressioni della major e dei fan. Io oggi voglio raccontare tutto questo: la strada verso la liberazione da queste catene». È il suo allontanamento dagli inferi. «L’Inferno, paradossalmente, è stato diventare famoso. Ottenere un pass per una vita che non è quella che mi ha portato a fare musica – confida – quello è stato il vero patto con il diavolo. Mi spiego: sono partito facendo arte in un determinato contesto in cui il disagio e la tensione erano i miei motori creativi. Poi, inaspettatamente, quella molla si è allentata, il modo di vivere è cambiato grazie al successo. Se posso alzarmi all’ora che voglio e spendere mille euro al giorno, viene da domandarsi: ma dove cazzo mi trovo? La risposta è semplice: quella non è più l’esistenza dei fan che mi seguono dagli inizi. Ciò può far perdere “l’intenzione”, cioè lo slancio originario, il vero motivo che ti spinge a fare canzoni».
Iniziano a fargli le treccine per le prossime foto: si trasforma in un mix fra Anthony Kiedis dei Red Hot Chili Peppers in “Give It Away” e ASAP Rocky. Il suo sguardo si illumina come una stella. Ma come si fa a splendere tutti i giorni? «“E quindi uscimmo a riveder le stelle” è proprio l’ultimo verso dell’Inferno di Dante. Per me quelle stelle coincidono con il fare arte per il piacere di farla, tenendo vivo il fuoco dell’intenzione – dice serio – il Paradiso è essere soddisfatti di sé stessi, senza ascoltare i diavoli che sobillano. Il Paradiso, per un artista, è la pace con il proprio io. Il Paradiso è essere liberi e non schiacciati da un mondo artificiale che rischia di inghiottire la passione. Per me l’uscita de “La Divina Commedia” sarà come rinascere. Noi umani siamo mente e ambiente, ma se togli l’ambiente, cioè un tassello fondamentale per vivere e fare arte, è come se togliessi la terra sotto i piedi, che è esattamente quello che è successo a causa del Covid. Affrontato l’Inferno del successo, superato il Purgatorio della pandemia, potrò riabbracciare la luce». Per Dante, quella luce, coincideva con l’amata Beatrice. Per Tedua? «Volevo dirti che domani mattina sarò ricco come un figlio di puttana. Ma non mi sarò dimenticato che vengo dalla strada. Quando verrò trafitto da chi si insidia e grida: “Vaffanculo!” canterò un ritornello con le peggio parolacce così in major non gli piace”», cita “Vertigini” e prosegue: «è tutto scritto lì. Realizzare il disco come lo voglio io, anche a costo di andare “contro”, sarà il punto più alto e luminoso del mio cammino. Il documentario sulla vita di Kanye West è stato una grande fonte di ispirazione». C’è una scena iconica in cui Kanye West entra negli uffici di alcune etichette discografiche e rappa davanti ai dipendenti nella speranza di essere ascoltato. «Al primo in-store di “Orange County” non avevano stampato abbastanza copie per i fan – ricorda – si presentarono duecento persone in più. Feci gli autografi su dei poster. Non posso dire che qualcuno non abbia creduto in me, ma di certo non era scontato che ce la facessi a realizzare qualche cosa di importante. Alcuni, forse, hanno pensato che fossi solo di passaggio».
Durante la prima estate post lockdown, con il settore della musica in ginocchio, Tedua ha passato un lungo periodo a Bogliasco, il paese sul mare in cui è nato Bresh. Insieme scorrazzavano in motorino e si tuffavano dagli scogli, quasi tornando ragazzini, e così hanno combattuto la malinconia. «Non ho uno psicologo. Non ho nulla in contrario, ma quando sto male parlo con i miei amici, mi sfogo con loro – si apre Tedua – Drilliguria per me significa avere la grande fortuna di poter affrontare i momenti bui insieme, ma anche di condividere le gioie. Il recente successo di Bresh è stato importante per me, ho sentito di poter stare con più sollievo nelle retrovie, di supportare lui e il collettivo: io ero fermo, ma spingevo i miei amici. E questo mi faceva stare bene. Anche Izi ha fatto la mia stessa scelta: questo dare luce, porta poi a riceverne. È una delle magie del nostro gruppo. Anche Vaz Tè e Disme hanno spaccato con il joint album. Credo molto nella forza della crew». Fra le ultime leve, però, sembra esserci più conflittualità rispetto alla scena del 2016. «A Genova abbiamo dovuto unire le forze per emergere, l’essere compatti ha sempre fatto parte del nostro DNA – riavvolge il nastro Mario – nel 2016 siamo stati tutti uniti, anche fra i vari rappresentanti delle diverse città, perché si arrivava da un periodo in cui tutti si odiavano. I ragazzi di oggi, magari, si buttano nelle faide di quartiere perché si cerca sempre di andare “contro” il mondo che ti ha preceduto. Arriveranno a collaborare anche loro, ne sono certo».
Ad attirare i riflettori ci sono anche crew come SEVEN 7oo. Tedua prende un minuto per pensare e poi fa la sua analisi: «Spaccano, sono uniti. Anche la 126 di Roma è un altro esempio di compattezza. Il fatto poi che diversi collettivi o ragazzi a loro vicini si dissino nelle canzoni con altri giovani è sportivamente hip hop, è un calcio in faccia all’ipocrisia. Quando poi, però, il tutto si sposta in strada, con delle ripercussioni, effettivamente si entra in un altro campo da gioco, che non voglio commentare. Sono affari loro. Io sono cresciuto con Tormento vs Fibra: non posso non divertirmi ascoltando i dissing». Lui, però, non è un rapper da invettiva. «Potrei risultare forte se mi cimentassi – scoppia a ridere – il dissing è utile per evitare la violenza. È uno sfogo. Ma per come sono fatto io, preferisco concentrare le forze su qualche cosa di più costruttivo».
Tedua è fra i protagonisti del documentario “La Nuova Scuola Genovese” e del film “L’Ombra di Caravaggio” di Michele Placido. Mentre la make-up artist lo trasforma in un uomo maturo e in carriera, con un guizzo di follia alla “American Psycho”, rivendica proprio il non porsi limiti. «Quei progetti rappresentano il Mario che cresce, il Mario sognatore, il Mario che va avanti – racconta – nell’industria americana prendono ragazzi talentuosi e li fanno crescere a fuoco, spesso bruciando le tappe. Qui è tutto diverso, devi costruirti quasi da solo. Partecipare a questi lavori per me è stato un sogno. Vorrei diventare un comunicatore e queste avventure, insieme alla musica, mi aiutano a raggiungere l’obiettivo prefissato. La gente più adulta mi rispetta perché i ragazzi dicono ai propri genitori: “guarda che questo non fa la canzoncina estiva, oltre a musica seria fa anche film”. Questo mi permette di arrivare a un pubblico sempre più vasto».
Nell’incontro con Gino Paoli ne “La Nuova Scuola Genovese”, il grande cantautore gli dice che l’unica cosa che conta nell’arte è la verità. Tedua diventa subito serio: «La musica per me è una missione. Puoi anche essere un bravo venditore, ma il pubblico prima o poi se ne accorge se rappi o canti senza cuore e anima». E il fallimento? «Quando fallirò te lo dirò», ribatte colpo su colpo come in un incontro di boxe. Questa sicurezza, parafrasando una famosa frase che cita spesso, non va trasformata in arroganza. «La sicurezza è un’arma a doppio taglio, è vero, ma in certi momenti l’essere sfacciati, è fondamentale. Un artista sa quello che vuole – ragiona – quando scrissi “Orange County” non dubitai un attimo: ogni aspetto di quel progetto, dalle canzoni alla cover, era nella mia mente. In quel disco ho sfogato i disagi della mia vita famigliare, ho raccontato la periferia».
In questo mercato musicale l’errore non sembra essere contemplato. Continua concentrato: «È un combattimento. Nell’MMA è difficile rimanere imbattuti. Ci sono fighter fortissimi che perdono incontri importanti, ma tornano ancora più forti di prima. Le sconfitte fanno crescere. Sembra che il fallimento nella musica non sia accettato, è vero, ma sta tutto a te, a quello che hai dentro. Non vivo con l’idea di fare ogni cosa in modo perfetto, ma io mi sveglio al mattino e so esattamente ciò che voglio».
Gli ultimi scatti e poi di nuovo seduto davanti a quel grande specchio. Occhi dentro gli occhi: «Sono arrivato a essere complessato dall’idea di dover arrivare a più gente possibile forse perché ero mosso dall’ego trip di dover risultare simpatico a tutti. In questi due anni ho lavorato su di me proprio per uscire da questa gabbia. Quello che voglio è conquistare la fiducia delle persone con una musica che mi rappresenti al 100%. Io sono diventato conosciuto grazie alla mia “pancia”, alla musica di istinto. Ma ho voluto migliorarmi tecnicamente e umanamente per allargare i miei orizzonti, senza però perdere quella fame». Tedua fa un sospiro. La domanda e la risposta sono contenute in quel leggero sbuffo d’aria: tutto questo per arrivare realmente dove? «A far sì che chi mi ascolta mi creda davvero, dando peso a quello che dico. La verità è un atto d’amore».