Che cos’è la moda se non uno dei molti volti dell’arte? Il dialogo tra queste due discipline si porta avanti da sempre, generando alcuni crossover che hanno fatto la storia, ma se c’è un nome fra tutti che lo dimostra in modo più evidente, è sicuramente quello di Dior.
Forse non tutti sono a conoscenza del fatto che, prima di venire consacrato come uno dei più importanti couturier di sempre, Christian Dior era un gallerista. Già dall’infanzia nutriva un senso innato per tutte le forme d’arte, dalla musica alla pittura, fino alla poesia e all’architettura. Le sue origini però lo costrinsero a dover reprimere tutte le sue passioni, anche se fino a un certo punto. La famiglia Dior era infatti un nome di spicco nell’ambiente industriale francese e dunque strettamente legata a un ideale di lavoro concreto e sicuro. Tutto ciò che riguardava l’arte era un qualcosa di effimero, incapace di assicurare una carriera di successo a un uomo ed è per questo che per il loro figlio vollero un percorso formativo tradizionale che corrispondeva alle scienze politiche. Questa costrizione arrivò però al punto di non essere più tollerabile e nel 1925 Christian Dior abbandonò l’École des Sciences Politiques per dedicarsi assieme all’amico Jacques Bonjean all’apertura di una piccola galleria al civico 34 di Rue de la Boétie di Parigi.
Il progetto divenne realtà nel 1928 anche grazie al supporto economico del padre, ma a una condizione imposta dalla madre Madelaine: il nome Dior non doveva comparire in nessun modo sull’insegna dell’attività per non danneggiare la reputazione del nucleo familiare. Così lo spazio venne registrato come Galerie Bonjean, anche se nell’ambiente prese l’ironico soprannome di Galerie Jambon Dior.
Grazie alla fitta rete di conoscenze nel panorama intellettuale frequentato nel cabaret Le Bœuf sur le Toit, dove si formò il cosiddetto gruppo “Le Club” di poeti, attori, musicisti, pittori e scrittori, la galleria divenne un crocevia di mecenati e personalità illustri. La leggenda vuole che al suo interno vennero esposte per la prima volta le opere di Salvador Dalí, ma non solo, l’intera corrente del surrealismo venne accolta sin dai suoi albori, assieme a tutto ciò che costituiva l’avanguardia, da Pablo Picasso a Joan Miró, fino a Max Ernst e Giorgio De Chirico. Si dice inoltre che fu proprio lì che prese vita il movimento artistico della Scuola Romana.
Il sogno di Dior si interruppe però quattro anni dopo, a causa della crisi economica del ’29, la quale colpì anche la famiglia Dior.
Christian dovette dunque reinventarsi, ma non era più disposto a mettere da parte il suo vero amore e seguendo il consiglio di un amico decise di imbattersi in una forma d’arte alternativa, quella della moda. Comincia così il suo percorso affianco allo stilista Robert Piquet e dopo il ritorno dal servizio militare passa nelle mani di Lucien Lelong. Quel settore cominciò a catturare la sua anima sempre di più, a tal punto da voler debuttare con la propria maison eponima, che aprirà ufficialmente nel 1946 al 30 di Avenue Montaigne a Parigi. Non passa troppo tempo prima che la firma si affermi nell’olimpo dell’haute couture. Il suo ideale inedito di donna elegante ed estremamente femminile nel periodo del dopoguerra fu totalmente rivoluzionario e tuttora si ricorda che con il manifesto “New Look” Dior creò la femme. In parallelo al suo ruolo di stilista, Dior continuò imprescindibilmente a seguire la scena artistica dell’epoca, tanto da portarla nei suoi défilé: tagli da architetto e colori da pittore diventano i suoi tratti distintivi.
La prematura morte a soli 52 anni in circostanze misteriose purtroppo mise fine a tutto quanto, lasciando un’immensa eredità che andava per forza portata avanti. Il duro compito toccò al suo assistente dell’epoca, un certo Yves Saint Laurent, il quale tra l’altro, oltre a essere l’enfant prodige degli atelier, era un noto estimatore d’arte. La troppa pressione costrinse però il giovane stilista ad abbandonare la prestigiosa nomina solamente tre anni dopo, causando non pochi problemi alla sua sfera emotiva, ma questa è un’altra storia.
Fatto sta che da lì in poi più o meno tutti i successori che ricopriranno la carica di direttore creativo del brand si ispireranno notevolmente al profondo legame che unisce sin dalla sua nascita Dior all’arte.
Il primo fu Marc Bohan con la collezione autunno/inverno 1984 influenzata dagli schizzi di Jackson Pollock, tra abiti e gioielli con effetto dripping. Dopodiché il testimone del reparto womenswear passò all'”architetto della moda” Gianfranco Ferré, il quale esplorò un’allure rinascimentale con i cromatismi tipici di Tiziano e Rembrandt nell’autunno/inverno 1993, per poi rendere omaggio a Paul Cézanne nell’autunno/inverno 1995, generando così due tra i capolavori più memorabili nella storia dell’haute couture.
Non sarà da meno anche l’estroso John Galliano, che nella sua gloriosa era in Dior fece convivere il suo amore per la storia e il teatro con le arti visive. Si ricorda infatti la spettacolare collezione primavera/estate 1999 con le atmosfere surrealiste estrapolate dagli esperimenti di luce di Man Ray e tradotte in effetti trompe-l’oeil, oltre all’inaugurazione della mostra itinerante Lady Dior As Seen By, che dal 2011 ha dato la possibilità a più di cinquanta artisti di potersi esprimere attraverso la borsa Lady Dior come se fosse una tela immacolata.
Un altro esempio di come la fedeltà al patrimonio del fondatore non sia mai svanita lo troviamo nel periodo di Raf Simons, che già durante il debutto alla guida di Dior nel 2012 dipinge i quadri di Sterling Ruby su abiti fiabeschi e nella collezione successiva di prêt-à-porter celebra le illustrazioni di Andy Warhol immergendole in uno scenario degno di René Magritte. D’altronde a Raf stesso piaceva dire: “Christian Dior si ispirava alla Belle Époque, io al Modernismo. È sempre arte, ma in epoche diverse.”
Veniamo ora ai due direttori attuali, coloro che probabilmente stanno ricalcando in modo più intenso le origini di Christian Dior e la sua attitudine da gallerista. Maria Grazia Chiuri, nella sua visione di moda interdisciplinare, si è concentrata sull’uso del blu negli autori del ventesimo secolo e sul femminismo nell’arte, portando avanti anche diversi progetti correlati, come la sponsorizzazione di mostre.
A occuparsi del reparto maschile dal 2018 è invece Kim Jones, il quale ha sin da subito stabilito una forte identità nelle sue collezioni per la maison. Stagione dopo stagione, infatti, il designer ha sfornato delle collaborazioni di successo con i più noti artisti contemporanei tuttora attivi, gli stessi con cui probabilmente oggi avrebbe lavorato Christian Dior se fosse ancora vivo. Sfruttando quel pizzico di hype capace di attirare l’interesse dei più giovani, lo stilista britannico è riuscito a rinnovare l’appeal del marchio, facendo conoscere al grande pubblico l’origine e l’essenza che ha forgiato la griffe francese.
Il primo capitolo di questa storia ha inizio con la primavera/estate 2019, realizzata a quattro mani con KAWS, l’artista di Brooklyn che con i suoi art toy è riuscito a ridefinire i concetti di arte contemporanea e cultura pop. Brian Donnelly, questo il suo nome all’anagrafe, si è occupato prima di tutto dell’allestimento della sfilata, circondata da una moltitudine di fiori, dove si eregge un enorme BFF interamente costituito da rose, il quale nella mano sinistra sorregge il profumo Miss Dior assieme a un’effigie di Bobby, l’amato cane di Christian Dior. Oltre alla straordinaria ambientazione che ha letteralmente invaso i social, KAWS ha ridisegnato anche l’iconica ape che simboleggia la maison con i suoi occhi a X, firmando una ricca capsule collection.
Segue poi la partnership con Hajime Sorayama per la stagione pre-fall 2019, che è andata in scena a Tokyo con una reinterpretazione dei codici stilistici in chiave giapponese (la scala di grigi si fa metallica e il rosa si ispira ai fiori di ciliegio). Ad accogliere gli invitati allo show c’è una enorme sexy robot alta dodici metri, attorno alla quale hanno sfilato i modelli con indosso le raffigurazioni di t-rex e fembot provenienti dall’immaginario futuristico in versione erotica dell’artista nipponico.
Il terzo nome scelto è quello di Raymond Pettibon, l’illustratore della scena punk rock americana a metà degli anni Settanta che, partendo dalla realizzazione di copertine e fanzine, sviluppa un suo stile in bilico fra ribellione e impulso iconoclasta, fatto di tratti grezzi e brutali ma al tempo stesso precisi. Una serie di suoi disegni inediti finiranno quindi sulla maglieria, sulle giacche e le camicie della collezione autunno/inverno 2019.
La primavera/estate 2020 viene affidata invece a Daniel Arsham, il cosiddetto archeologo del futuro, il quale pensa gli oggetti più iconici del presente come se fossero delle reliquie ritrovate in un’epoca posteriore alla nostra. Lo stile della sua serie “Future Relics” viene dunque applicato ai capi e alla scenografia del défilé, esplorando il concetto di tempo attraverso suggestive sculture monolitiche che non solo formano la parola “D.I.O.R.”, ma immaginano anche degli oggetti personali di monsieur Dior, quali un orologio, un telefono e il libro “Je suis couturier” del 1951 sotto forma di preziosi ritrovamenti, in parte erosi e costellati da cristalli di quarzo come riflessi di un’eternità remota.
L’ultimo tassello dell’eclettico puzzle concepito da Kim Jones corrisponde a Kenny Scharf, considerato l’artista ideale per spezzare la monotonia e il clima pessimista del 2020. Nel fashion show presentato in streaming questa settimana le sue creature fantastiche, coloratissime e psichedeliche sono comparse qua e là tra blazer, camicie e pantaloni sartoriali in tonalità scure, come un’autentica evasione dalla formalità.
Se tutto ciò non vi è ancora bastato a farvi capire quanto sia solida l’alchimia tra la maison Dior e il mondo dell’arte, vi ricordiamo anche che nel 2011 i più celebri abiti di Christian Dior e successori sono stati esposti al Museo Puškin di Mosca in un tutt’uno con opere di Modigliani, Matisse, Vanessa Beecroft e Jeff Koons provenienti dalle prestigiosissime sale del Louvre, del Musée d’Orsay e della Reggia di Versailles.
Perché, oltrepassando i confini del tempo e di tutte le discipline, Dior più di ogni altra cosa è al servizio dell’arte nella sua forma più pura, da sempre e per sempre.