Alla fine di settembre Fred Perry ha dichiarato di aver sospeso le vendite, per gli Stati Uniti, del modello nero con dettagli gialli della classica polo a maniche corte, una variante sempre più diffusa tra i cosiddetti Proud Boys dell’ultradestra americana. Prendendo le distanze da ogni estremismo, l’azienda ha inoltre posto l’accento sui valori abbracciati fin dalle origini, riassumibili in concetti quali tolleranza, indipendenza e diversità. Riepilogando la storia pluridecennale del marchio, effettivamente, si delinea un percorso iniziato nello sport – ambito inclusivo per definizione – e proseguito in parallelo a quello delle numerose sottoculture che, nel tempo, si sono susseguite in Gran Bretagna, spesso sovrapponendosi fra loro.
Lo stesso nome del brand rimanda al tennis: il fondatore Frederick John (“Fred”) Perry fu infatti abile a capitalizzare una carriera eccezionale – culminata con tre trofei consecutivi a Wimbledon nel triennio 1934-36 – lanciando, negli anni ’40, una propria linea di abbigliamento sportivo, mutuando il simbolo del Laurel Wreath dalla corona d’alloro presente, all’epoca, nel logo del torneo inglese. Nel 1952 introdusse una novità destinata a diventare il capo della griffe per eccellenza, una polo in piqué di cotone dalla silhouette asciutta, rigorosamente bianca visto che i regolamenti prescrivevano tenute da gara immacolate, con la corona ricamata a sinistra sul petto. Cinque anni dopo sarebbe apparsa l’altra cifra stilistica del bestseller di Fred Perry, ossia il twin-tipping, la doppia riga sui profili di colletto e maniche, aggiunta, pare, dopo la richiesta di un buyer del retailer Lillywhites di personalizzare il modello con i colori della sua squadra (nello specifico, il bordeaux e l’azzurro del West Ham).
Il passaggio dai campi al guardaroba quotidiano avviene con i Mod, giovani londinesi che negli anni ’60 si distinguono grazie agli outfit ricercati, basati sull’aplomb del completo sartoriale, da abbinare però a parka, pullover, camicie Oxford e, appunto, polo del marchio, apprezzate per la pulizia generale e il prezzo contenuto. Questa omogeneità stilistica inizia a venire meno con la diffusione, tra le loro fila, di generi come ska, rocksteady, r’n’b, reggae ecc.; le diverse preferenze musicali innescano, a loro volta, cambiamenti a livello di look.
Nonostante la frammentazione, i Mod tornano alla ribalta con la seconda ondata del decennio seguente, giunta all’apice con il film “Quadrophenia” (1979), un vero e proprio manifesto dell’estetica in questione, il cui protagonista Jimmy sfoggia, sotto l’irrinunciabile parka, una Fred Perry bianca, ben abbottonata come da prassi tra i suoi “colleghi”. In tutto ciò, i capi della label cominciano ad apparire sui nomi di riferimento della scena musicale coeva: l’elenco comprende Specials, Kinks e, soprattutto, Paul Weller, soprannominato non a caso Modfather perché le sue mise impeccabili, dentro e fuori dal palco, vengono fedelmente replicate da migliaia di epigoni sparsi nel paese. Cedono al fascino della maglia con la corona anche star del rock come Freddie Mercury e Paul Simonon dei Clash.
La polo Fred Perry diventa insomma sinonimo di un certo british style: è sofisticata e allo stesso tempo trasgressiva, riconoscibile eppure abbastanza discreta da adattarsi alle “uniformi” del gruppo di turno, che sia composto da esponenti delle varie sottoculture, freak, rocker, artisti e via dicendo.
Negli anni ’80 il brand sembra perdere smalto, ritrovandosi suo malgrado associato alle frange più politicizzate degli skinhead, vicine ai neofascisti del National Front, oppure ai casual, quei tifosi “vestiti bene per comportarsi male” negli scontri fuori dagli stadi, ma alla metà dei ’90, con il successo del Britpop, la situazione cambia nuovamente. Gli interpreti del nuovo fenomeno musicale, su tutti i fratelli Gallagher (Oasis) e Damon Albarn (Blur), sono fautori del revival sia nel sound che nell’abbigliamento, e recuperano ancora una volta i codici stilistici dei Mods.
Fred Perry entra dunque nel nuovo millennio rinsaldando il suo legame con la musica, che negli anni successivi verrà ulteriormente cementato invitando eminenti personalità del settore (tra cui il sopracitato Weller, Amy Winehouse e Miles Kane) a personalizzare l’iconica polo.
Dagli anni Zero la produzione si estende all’offerta completa per uomo e donna, mentre per aggiornare la propria identità la label ricorre a collaborazioni più o meno inaspettate. Alcune di esse rispecchiano in effetti l’heritage Fred Perry, sobrio e raffinato. È il caso delle capsule collection con Drake’s, G.H. Bass & Co. o Margaret Howell, nel segno rispettivamente: dei motivi geometrici; delle scarpe penny loafer in pelle spazzolata; del tennis d’antan evocato da maglie, giacche e pantaloni cropped dalle linee morbide, essenziali, nel classico binomio black & white.
Altre collab procedono in direzione opposta, a cominciare da quella con Comme des Garçons, che fedele al suo approccio avant-garde ricopre i tessuti di righe asimmetriche, tinte bold e pattern sovradimensionati; oppure, più di recente, applica alle polo il color block, duplicando inoltre la corona d’alloro. Spiazza anche la collaborazione con Nicholas Daley, un omaggio al look 70s dei musicisti reggae tra bomber in velluto millerighe, maglie zippate, tracksuit con pannelli a contrasto e patch sparse ovunque. La partnership è stata rinnovata per la stagione in corso e un nuovo drop è in uscita il 15 ottobre. Per non parlare poi di quella con MASTERMIND, un cortocircuito tra lo stile cupo e sferzante di quest’ultima griffe e l’abbigliamento basic di Fred Perry, ben sintetizzato nel taping con teschio, ossa e Laurel Wreath che corre sugli abiti, tinti di nero per aggiungere un’ulteriore nota di aggressività all’insieme.
Il sodalizio più significativo è però quello con Raf Simons, iniziato nel 2008 e tuttora in corso. L’affinità tra i due brand si spiega, probabilmente, con il comune interesse per lo stile delle sottoculture, inglesi o europee che siano. Il lavoro di Simons per la label britannica attinge dunque spesso dall’immaginario dei movimenti giovanili: nella collezione autunno/inverno 2014, ad esempio, bomber, crewneck, camicie e altri articoli risultano percorsi da bande diagonali, un richiamo all’Haçienda, storica discoteca della Manchester underground; per la primavera/estate 2018, invece, il designer appone sui capi strisce rettangolari in vinile scuro, simili in tutto e per tutto al nastro adesivo usato dai punk per customizzare i propri look. L’attitudine Do It Yourself, esteticamente sovversiva, è centrale anche nei drop per la stagione attuale: Simons dissemina sui pezzi chiave (giubbotti, polo, cardigan, shirt, blazer accomunati dalla vestibilità over) immagini di concerti tenutisi nel leggendario 100 Club di Londra, completando il tutto con pin in metallo, stemmi e minuterie assortite. Il materiale fotografico è tratto dal libro “100 Club Stories”, voluto nel 2018 proprio da Fred Perry per celebrare i 75 anni del locale.
Un’iniziativa non nuova per la griffe, che da tempo volge lo sguardo oltre la moda in senso stretto: sul sito ufficiale un’intera sezione, denominata Subculture, propone esclusivamente contenuti di tipo musicale, sportivo, artistico, culturale in genere. Un’iniziativa che evidenzia la volontà, da parte di Fred Perry, di continuare ad esplorare il maggior numero possibile di ambiti, fatta ovviamente eccezione per la politica (se così possiamo definirla) di pochi fanatici, lontana anni luce dai suoi principi.