Finalmente una canzone non “da Sanremo”

Cos’hanno in comune brani come Due vite di Marco Mengoni, Brividi di Mahmood e Blanco, Glicine di Noemi, Fai rumore di Diodato e I tuoi particolari di Ultimo, solo per citarne alcuni usciti negli ultimi cinque anni? Semplice: appartengono tutte alla categoria ontologica della “canzone sanremese”, un concetto che non ha nessun corrispettivo altrove nel mondo (con l’unica eccezione delle canzoni da Eurovision, forse, ma quella è un’altra storia). Sono tracce tendenti alla ballata, con un arrangiamento orchestrale importante e un’impostazione vocale classica, in cui la melodia omaggia la tradizione italiana e il testo è incentrato sulla sfera sentimentale. Storicamente era quasi impossibile vincere il Festival portando qualcosa di diverso; o almeno, così è stato fino a quando non sono arrivati prima Francesco Gabbani con Occidentali’s Karma (nel 2017) e poi Mahmood con Soldi (nel 2019) a sparigliare le carte. Ma ancora adesso le cose non vanno tanto diversamente, tant’è che sia Due vite che Brividi e Fai rumore hanno trionfato nelle loro annate.

Per anni, quindi, ci si è adeguati all’andazzo: chi andava a Sanremo portava una canzone sanremese e, per proprietà transitiva, chi si trovava a scrivere una canzone dal tiro sanremese la presentava in gara a Sanremo. Poi è arrivato il rap, che dal 2016 in poi ha invaso le classifiche decretando un punto di non ritorno per la musica italiana. E si è presentato un problema fino a quel momento inedito, perché è evidente che è praticamente impossibile per un rapper forgiare un pezzo di quel tipo. L’unica soluzione era cercare di smorzare i toni e integrare elementi sanremesi all’interno di brani che non nascevano per esserlo, nella speranza di farli digerire a un pubblico che non è noto per apprezzare certe sonorità. Per anni, sul palco dell’Ariston abbiamo riscontrato la presenza di un’ampia gamma di vie di mezzo. Spesso si tratta di esperimenti anche parecchio interessanti e coraggiosi, ma molto lontani dal concetto di rap che ascoltiamo in altri contesti. C’è stato il rap melodico, quello con l’autotune, quello accompagnato da una big band, quello tendente all’indie o all’R&B, quello distorto e contaminato con l’elettronica, quello tamarro con la cassa dritta, quello in duetto con una cantante pop o un cantautore, quello ibridato con la tradizione canora regionale. Ma l’hip hop più classico, in termini di sound, è sempre mancato all’appello.

Quest’anno la presenza di rapper e affini è cresciuta ancora: su 30 brani in gara, quelli cantati da qualcuno che proviene / appartiene / ha transitato dalla scena sono ben 11, più di un terzo. Anche stavolta, però, di hip hop in purezza ne abbiamo visto poco. D’altra parte lo aveva già anticipato Carlo Conti mesi fa, parlando dei brani che stava selezionando: “Si sono presentati tanti rapper, ma sono più orientati sul pop e stanno crescendo”. E in effetti a rappare in senso stretto sono solo Fedez in una strofa (la sua Battito in versione registrata risultava più debole, ma sul palco migliora di molto e arriva, grazie a una performance emozionata e convinta) e Willie Peyote in alcuni passaggi (anche se l’efficacissima musicalità dell’arrangiamento prevale su tutto il resto). Rkomi ormai fa un genere a sé, e lo fa anche molto bene; Achille Lauro è un crooner consumato; Olly e Bresh delle popstar; Rocco Hunt ha il tormentone e la catchyness nel DNA; sull’operazione “ripuliamo Tony Effe” diciamo solo che ci sarebbe piaciuto di più in modalità sporco e cattivo.

«Guè continua a dirmi che nessuno capirà cosa stiamo dicendo, che le prime file saranno imbalsamate ad ascoltare una canzone così, che gli dispiace per me che arriverò ultimo».
Shablo

E poi ci sono Shablo, Guè, Tormento e Joshua, che appartengono proprio a un’altra categoria. Sia chiaro, forse qualcuno aveva già osato portare una canzone classicamente hip hop a Sanremo ed è stata scartata alle selezioni: non lo sapremo mai. Ma nessuno ci era mai riuscito, e gli unici a potercela fare erano proprio loro, gli Avengers, come sono già stati ribattezzati. Non solo, riescono pure a sfondare il muro di gomma del pubblico dell’Ariston, anche se in conferenza stampa Shablo aveva confessato che una delle loro più grandi preoccupazioni era proprio quella: “Guè continua a dirmi che nessuno capirà cosa stiamo dicendo, che le prime file saranno imbalsamate ad ascoltare una canzone così, che gli dispiace per me che arriverò ultimo”, aveva scherzato. E invece hanno tirato in mezzo platea, galleria, sala stampa e telespettatori grazie a un brano magistralmente prodotto da Shablo che suona come una via di mezzo tra No Diggity e il primo Kanye, a un Joshua che pur emozionatissimo ci riporta a Nate Dogg, a un Tormento che come sempre ci ricorda che come lui ce n’è solo uno e a un Guè che trasuda swag e coolness.

Nei tre minuti scarsi di La mia parola ci sono cinquant’anni di cultura e si arriva anche più indietro: il coro gospel, le radici blues, l’MPC, lo scratch, lo slang, le citazioni di Gin & Juice e Party and BullshitAllo stesso tempo, però, nulla suona polveroso e artefatto: la freschezza è palpabile, perché non c’è nulla di più fresco della spontaneità. Essere se stessi paga sempre; al contrario non sempre i compromessi sono la via giusta per arrivare a tutti, con buona pace di Carlo Conti, che pensa che abbandonare il rap e svoltare verso il pop significhi “crescere”. Il grande amore delle vite di tutti e quattro è la cultura hip hop, e salire sul palco con una canzone dedicata a lei era la cosa più giusta da fare. Ci sentiamo di rassicurare chi la gara la sente davvero: Shablo e soci non vinceranno, forse non arriveranno neppure nella top 5. Ma nei nostri cuori hanno già trionfato.