Da quando rapper e affini hanno cominciato a frequentare abitualmente il palco dell’Ariston, il tasso delle polemiche sanremesi ha subito una vera e propria impennata. Sia chiaro, le polemiche sono da sempre una costante al Festival, ma poche cose riescono a compattare (in peggio) l’opinione pubblica quanto quei cattivoni tatuati e armati di Auto-Tune. Basta dare una rapida occhiata alle ultime cinque edizioni per rendersi conto che – con la notevole eccezione dell’affaire Morgan & Bugo – tutti i principali “scandali” hanno visto come protagonisti artisti provenienti dalla scena hip hop o urban. Da Achille Lauro accusato di promuovere la droga in Rolls Royce a Junior Cally tacciato di misoginia, passando per le esternazioni di Fedez, le dichiarazioni pro-migranti e anti-genocidio di Dargen e Ghali, le performance ammazzafiori di Blanco, le accuse infamanti a Geolier di avere comprato il televoto; sul banco degli imputati, guarda caso, c’è sempre un rapper. Generalmente la bolla si sgonfia nel giro di poche settimane dalla fine della kermesse, se non prima ancora; l’impressione è che alla platea nazionalpopolare, e a una certa fetta di politica populista, serva un capro espiatorio o peggio ancora un’arma di distrazione di massa, qualcuno da poter accusare di tutte le storture e le contraddizioni della società italiana. E i rapper, poco avvezzi a moderare il linguaggio e ripulire la loro immagine per strizzare l’occhio alla tv generalista, sono perfetti per questo scopo.
Quest’anno, gli habitué del toto-polemica puntavano tutto su uno di questi tre personaggi: Fedez, Tony Effe e Emis Killa. Il primo perché un motivo per piazzarlo nell’occhio del ciclone lo si trova sempre (ad esempio le ultime indiscrezioni sulla fine del suo matrimonio); il secondo per le note vicende relative al concerto di capodanno; il terzo perché il suo nome era saltato fuori nell’ambito dell’inchiesta sulle curve di Inter e Milan, e già si sapeva da tempo. Tant’è che in una delle ultime conferenze stampa era stato chiesto a Carlo Conti se riteneva opportuna la sua presenza al Festival: “Non spetta a me giudicare, non faccio il giudice”, aveva risposto lui, sottolineando che a lui interessava solo cosa avrebbe fatto sul palco dell’Ariston. Non si sapeva ancora che fosse indagato, però: ieri la notizia è esplosa su tutti i giornali, diventando in breve virale e scatenando l’indignazione di molti, cosa che ha convinto Emis a rinunciare a Sanremo per non inquinare l’indagine – di cui a quanto pare non era a conoscenza neppure lui – con “pressioni e circhi mediatici”. Una decisione assolutamente non dovuta, e non dipesa da una richiesta da Carlo Conti o dalla Rai, che però gli fa onore: perché, come giustamente fanno notare molti commentatori sui social, siamo in un momento storico in cui si applicano due pesi e due misure.
“Riesce a fare un dignitoso passo indietro Emis Killa e non la Santanché. Chiediamoci chi abbiamo al governo”, scrive un utente sui social del Corriere, interpretando il sentimento di molti. Per chi non seguisse la cronaca, la ministra Santanché è stata rinviata a giudizio per falso in bilancio, oltre che per truffa aggravata ai danni dell’INPS; mentre scriviamo, dieci giorni dopo la notifica degli atti, non si è ancora dimessa. E il punto, in effetti, è proprio questo. A prescindere dal caso giudiziario in sé, su cui al momento perfino Emis sa ancora troppo poco e su cui potrà fare chiarezza solo la magistratura, è paradossale che ormai ai cantanti (e soprattutto ai rapper) si richieda di aderire a uno standard morale ed etico perfino più alto di quello che si chiede a un ministro della repubblica. Nel momento in cui scriviamo, oltre a Santanché, sono indagati anche Giorgia Meloni, il ministro Nordio e il ministro Piantedosi, rispettivamente Presidente del Consiglio, ministro della Giustizia e ministro dell’Interno, in questo caso per una vicenda relativa al rimpatrio del generale libico Almasri. Avere un indagato seduto al tavolo del governo, insomma, va bene, ma avere un indagato sul palco dell’Ariston pare brutto. C’è chi tende a mettere tutti sullo stesso piano, come l’onorevole Gasparri, che già aveva presentato un’interrogazione nella Commissione di Vigilanza Rai in merito alla presenza di Emis Killa nel cast di Sanremo (è l’organo parlamentare che sorveglia l’attività della radiotelevisione pubblica) e ora tuona: “Il decoro e l’onore valgono per tutti, non solo per i politici. Che Emis Killa si trovi un lavoro”. Se valgono per tutti, però, chi dovrebbe iniziare a dare il buon esempio?
Eppure, con buona pace di Gasparri, per una volta a scorrere i social sembra che Emis Killa sia riuscito a sfuggire al classico gioco al massacro che vede loro malgrado protagonisti i rapper sanremesi: la sua rinuncia a concorrere a Sanremo gli ha fatto guadagnare quel favore popolare che in teoria avrebbe dovuto perdere. Resta un auspicio, come dichiara lui stesso sui suoi social: oltre a quella di essere scagionato al più presto da ogni accusa in questa brutta storia (cosa che ovviamente gli auguriamo anche noi), “Spero di poter affrontare in futuro un Festival in cui ad essere centrale sia la musica, poter portare la mia canzone, parlare solo di quella e divertirmi, come avrebbe dovuto essere quest’anno e come è giusto che sia per tutti gli artisti che decidono di mettersi in gioco e partecipare alla gara”. Anche se sono rapper, aggiungeremmo noi.