Gemello ci racconta “UNtitled”: un album costruito per immagini

Oggi è uscito “UNtitled“, il nuovo album di Gemello per Believe Music che vede la luce dopo due anni di dedizione alla pittura, altra forte passione che gli permette di vivere e prendersi tutto il tempo che vuole per lavorare ai propri progetti. È libero da scadenze, vincoli, e ascoltando le dieci tracce che compongono il disco veniamo travolti dalla sincerità di un progetto costruito per immagini.

Abbiamo avuto l’opportunità di parlare con lui, gli abbiamo chiesto cosa si porta dietro dai tempi del TruceKlan, quanto sia difficile dare spazio a due passioni del genere e cosa significhi tornare a fare un album quando la scena rap è satura.

Sei uno dei pochi artisti che è riuscito a cimentarsi in modo così completo in due ambiti differenti. Quanto ti senti l’uno e quanto l’altro?

“Vanno di pari passo, per me è un’urgenza fare queste cose, sia scrivere che dipingere. È un ping pong tra le due cose, le faccio con la stessa intensità. Sicuramente con i quadri ho molte richieste, molti lavori, e magari non posso mai prendere quel momento per farmi un quadro per me. I quadri miei sono molto lavorati ed è quasi grottesco, ma non riesco mai a fare un progetto per me. Come se uno chef che cucina tutti i giorni non riesce a farsi un piatto di pasta.”

Sicuramente non è facile portare avanti due progetti del genere. Sei riuscito a dare a entrambi lo spazio che volevi o a volte hai dovuto sacrificare qualcosa?

“Di base qualcosa si perde dal punto di vista personale, ma è talmente una gioia per me lavorare. Mi piace poi che i miei lavori stiano in altre case, che respirino altra aria, quando passo per Roma o Milano e mi ricordo che c’è un quadro in qualche casa a volte citofono e salgo a rivederlo, come fosse un amico. Con la musica sono stato sempre abbastanza schivo, ci mettevo tanto a scrivere, mentre da un paio d’anni sto meglio di testa e in generale ho voglia di scrivere. Mi piace tutto, prima ho visto un chiostro qua sotto e per un attimo l’ho guardato come se fosse l’eden, il paradiso. Mi emoziono molto, ho gli occhi grandi da bambino; però a volte mi affosso anche, ho questi up and down e devo dire la verità, in questi ultimi due anni, grazie a me che sono cresciuto, alle amicizie, agli amori, piuttosto che all’analista, sto meglio. Riesco ad approcciarmi non solo con rabbia quando scrivo, ma anche per la voglia di creare qualcosa di bello. Questo implica che sono più una scheggia, sono sul pezzo. Sono fortunato perché faccio questi lavori che mi permettono di stare due giorni a guardare le nuvole, mi sento privilegiato ma anche perso allo stesso tempo.”

Dopo due anni che ti dedicavi principalmente alla pittura cosa ti ha spinto a realizzare un nuovo album?

“Era proprio questo, mi ero affossato proprio come stile di vita. La verità poi, proprio quella terra terra, è che dopo un po’ che faccio sempre quadri mi rompo le palle e mi viene voglia di scrivere, o viceversa. Non ci ho mai pensato bene, non mi autoanalizzo, non faccio troppe interviste e a volte quando vedo che il disco prima l’ho fatto uscire due anni fa dico madonna mia, che cazzo ho fatto in due anni? Forse, come tutte le cose, doveva essere così. Io sono abbastanza paranoico, nostalgico, però è come se tutto questo tempo servisse a creare un progetto, le cose mie non sono frenetiche. Grazie a Dio io campo con i quadri e questo mi permette di fare le cose quando ho voglia di farle, quando trovo l’ispirazione, potendo metterci la testa senza forzarla troppo e senza scadenze. Anche i miei amici, chi mi segue, mi dicono che bello che ci sono altre 10 tue nuove canzoni, come se gliele avessi regalate. Non è una cosa che la gente si aspetta in edicola come fosse un settimanale. Non è che lo faccio per fare la tipa che si fa aspettare, mi dispiace che poi le cose escono con tanto tempo di distanza, ma io ho bisogno di ascoltare, perdermi, fare un viaggio.”

“Indiana” è il tuo ultimo EP risalente al 2017. Cosa è cambiato nella tua vita da allora e come si è evoluta la tua musica?

“Sicuramente sono cambiato io come persona, sono cresciuto di testa, anche dal punto di vista delle persone, dell’amore. Non lo so, è che non ho inquadrato bene tutto questo periodo. A volte dico cazzo sono stato pigro, non ho fatto niente, però alla fine questo disco l’ho concepito in poco tempo e non vedevo l’ora che uscisse perché lo sentivo che c’era qualcosa. Nonostante i miei quadri siano sempre un po’ la stessa cosa, colorati, pieni, i miei album sono come un movimento. È come se io facessi per due anni quadri cubisti, due anni astratti, poi minimali. Con i dischi mi piace prendermi il tempo e uscire al momento giusto, faccio un bagaglio di tutte le cose che mi succedono e le metto lì. A volte non mi succedono cose belle o brutte e c’è questa specie di piattume che magari non ho voglia di trasmettere, trasmettermi, non mi va.”

Ascoltando “UNtitled” abbiamo notato qualche riferimento al tuo passato. Qual è l’insegnamento che ancora ti porti dietro dal TruceKlan?

“Tanto, tutto. C’è l’amicizia, il disagio, il ricordo che il rap lo facevamo perché era una nostra necessità, perché eravamo incazzati. Non era una cosa come adesso, più musicale, più pop, tutti che fanno i personaggi, le star. Noi rimaniamo dei pischelli di Roma. Questo mi fa capire che le generazioni cambiano e che è bello ricordarsi di quando erano dieci persone che venivano a vedere i concerti nostri, piuttosto che adesso cantare al Palalottomatica. Per me è sempre uguale, è un po’ una nostalgia, ma anche comprendere che siamo da dove veniamo. A volte le cose vanno peggio, a volte meglio, ma noi siamo sempre quei pischelletti lì col cappuccio sulle panchine. Mi manca, lo sento lontano, ma lo porterò sempre con me, sarà sempre una mia costante.”

Qual è la differenza tra pubblicare un album quando il rap non lo fa nessuno e farlo invece quando la scena è satura?

“Esatto, pure per questo sono stato fermo. Perché non riesco a capire certe dinamiche, la verità è che il mio approccio non è ponderato, studiato. Quindi penso che se escono 20 film al cinema e sono tutti filmoni, con un mega budget, io nel mio piccolo, anche se esco con il mio lavoro… non so, a me piace l’idea di avere il mio ristorantino, piuttosto che aprire un McDonald’s. La gente mi chiede perché non sfondi, perché non fai questo, quello. Io non è che non voglio sfondare, a me piace fare il mio, senza compromessi, avere un passaparola. Mi autotutelo, non mi importano i soldi, le cose che faccio le faccio come le voglio.”

Quello che abbiamo percepito noi è che niente è stato fatto cercando la hit, nei brani si sente la sincerità. Cosa ti aspetti da questo album?

“Oggi le cose devono essere sempre orecchiabili, deve essere tutto molto pop e la gente non si riesce a fermare due minuti. Come non si riesce a fermare due minuti su un quadro, magari dettagliato, e poi vede la cosa gigante d’impatto e dice wow. Quindi l’invito è proprio questo, di fermarsi un minuto. È un po’ come il cinema che ti costringe a non andare di là, in cucina, in bagno, ma a guardare. Poi devo dire la verità, io mi sono molto asciugato con le parole, il disco è anche melodico perché mi piace lasciarmi andare, sperimentare. Quindi c’è bisogno che uno si fermi un attimo a sentirlo, perché comunque è una bella tempesta di parole, sono i racconti, sono immagini, piuttosto che un tormentone. Penso sia un buon racconto per chi ha voglia di sentirsi le cose vecchie. È un biglietto da visita stampato, piuttosto che oh ciao io sono Andre, Gemello, ce sentimo. È come aver lasciato una cosa per quelli che mi seguivano e un tramite per i nuovi che magari hanno voglia di farsi un giro sulle mie cose.”

I featuring presenti sono molti e si tratta di personalità differenti tra loro. Come sono nate queste collaborazioni?

“I featuring sono nati perché… sai, così. Le cose più divertenti uno non le pianifica mai, si trova lì che scrive, lavora e quindi non siamo stati molto ponderati. La gente aspetta che io faccia il featuring con Coez, con Noyz, ma sono cose che ho già fatto e se in questo periodo abbiamo avuto molto da fare e ci siamo beccati meno, è semplicemente questo il motivo. È come un gioco, uscire una sera con l’amico in discoteca, una sera con l’altro amico a teatro, poi a fare surf al mare, sono momenti, sono cose che abbiamo scritto insieme. Sono tutti miei amici e sicuramente sono generi diversi, hanno un pubblico diverso e questa è anche un’opportunità. Poi hanno stima di me, io sono stato molto chiuso da piccolo e non volevo sentire nessuno, eravamo solo noi, il TruceKlan, chi è questo? quello chi è? E invece adesso sono più maturo, meno chiuso. Loro mi piacevano e si sono adattati bene al mio stile un po’ incasinato. Abbiamo fatto una bella cosa insieme.”

È innegabile la forte influenza di una figura femminile, tant’è che nella traccia “Galapagos” si sente una voce che abbiamo supposto essere la sua. Che ruolo ha avuto questa persona nella creazione del progetto?

“Lei è la mia ragazza, una bravissima attrice (Carlotta Antonelli, la stessa che avrete sicuramente visto in Suburra, ndr). Stiamo insieme, io ci sto benissimo, è come se fosse una musa. A stare insieme poi uno gioca insieme. Lei sicuramente ha avuto il ruolo di farmi capire di vivere giorno per giorno, nel presente. Io sono sempre stato cupo, un po’ incazzato, con questa urgenza di scrivere. Invece col senno di poi, mi rendo conto che l’approccio a questo disco è stato diverso, infatti l’ho chiuso in poco tempo perché di testa stavo meglio. Ho trovato persone con cui sto bene, tra cui lei che è stupenda. Il caso poi ha voluto che il fotografo mi facesse delle foto fuori in cui c’era pure lei e quindi è finita sul retro della copertina. Ci sta la sua voce incastrata lì che io amo e mi piaceva l’idea di coinvolgerla. I miei dischi sono come dei timelapse e quindi diventa come se fossimo tutti nella stessa classe. Quando li riascolto mi ricordo di quando li ho scritti, di come stavo, come pensavo. È una specie di piccola testimonianza, sempre con un approccio ultraterreno che lascia intendere amarezza, dolcezza, cattiveria. In questo disco c’è molto già nel titolo, come per dire senti un po’ te, immagina quello che vuoi, come quando vedi un mio quadro: uno si immagina una cosa, guarda dentro e vede un papero, e invece un altro vede una cabina telefonica. Mi piace molto.”

Nei tuoi due ultimi EP le copertine rappresentavano tuoi disegni, questa volta ci sei tu ma con il volto coperto dalla tua stessa mano. C’è un motivo particolare per il quale hai scelto questa copertina?

“In realtà mi sono innamorato di questa foto che mi ha fatto un mio grande amico e fotografo, Andrea Mete. Questo era il mio black album, era scuro, tante canzoni, sono appassionato del minimale, delle cose secche. Mi piace l’idea di essere un po’ nascono, perché sono così, cupo. Richiama anche un po’ il mio logo quella foto. All’inizio dovevamo mettere un quadro, ma poi ho detto non so, a me piacciono queste copertine un po’ indie pazze, un po’ James Blake, un po’ sfocate, dando la possibilità ad un fotografo di mettere la sua foto. Poi sul disco c’è un mio quadro sopra, c’è un drago disegnato. C’è sempre la sorpresa sotto, però è un po’ meno esposta. Non è stato troppo pensato. Il giorno prima mi chiamano e mi dicono, senti Andrea devi dare il titolo a questo album, io ho detto senti io lo chiamo come quando i quadri devo consegnarli subito e non ho tempo di dargli il nome. E l’ho chiamato “Untitled”, è una cosa mia, non so, una pigrizia (ride, ndr), una cosa minimale. Mi piaceva l’idea che non ci fosse la copertina fatta da me, ma che il titolo fosse come uno di quelli che dò ai miei quadri. Quindi c’è sempre un po’ di richiamo.”