A due mesi dalla fine di questo 2020, che non ci ha lasciato un attimo di respiro – o forse anche troppo, dipende dai punti di vista -, Gemitaiz ha rilasciato “Quello Che Vi Consiglio, Vol. 9”, regalandoci a tutti gli effetti 47 minuti faccia a faccia con sé stesso.
Anno dopo anno siamo ancora qui, a parlare di un progetto pensato per la prima volta nel 2009 e ancora oggi presente nelle casse di chiunque. Gemitaiz è cresciuto, forse è più maturo e meno incazzato di prima, forse è più consapevole e meno spensierato, ma è ancora quello che sputava rime sul beat di “Summer In The City” urlando che l’hip hop non era morto solo perché la gente non sapeva ascoltare.
Quella passione per la musica è forse la più vera che abbiamo in questo Paese, perché i nove mixtape sono stati concepiti con l’unico piacere di fare arte, nessuna indicazione, nessun paletto discografico. In fin dei conti lo sappiamo, essere vero è l’unico compromesso.
La parola è stata mantenuta di nuovo, talmente tanto da riportarci indietro di dieci anni. Una consapevolezza che nasce sin dalla prima traccia e si rafforza nelle successive fino ad arrivare all’outro che ci proietta in una dimensione parallela. Improvvisamente ci ritroviamo con 10 anni meno, quando, dopo aver scaricato il free download trovato su Facebook, ascoltavamo quelle tracce come se fossero soltanto nostre. Ci siamo cresciuti. “Quello Che Vi Consiglio” ha cresciuto diverse generazioni.
Stavolta di novità ce ne sono, una su tutte le produzioni, che oltre a non essere americane, non sono neanche tutte di altri: Gemitaiz ha concretizzato il desiderio di produrre, realizzando ben sei basi per il tape. In sei mesi o poco più ha buttato giù l’intero progetto, ha scovato un rapper emergente di Houston dandogli un posto in “Più Di Così”, si è appassionato alla fotografia e all’arte, e ha affidato la realizzazione della cover del progetto alle rappresentazioni di Oh De Laval.
Questo ed altro, lo trovate nella nostra intervista.
Come hai deciso di produrre diversi beat per il mixtape?
Produco da circa un anno e mezzo. Sono sempre stato interessato alla produzione e finalmente sono stato spronato tanto da Frenetik, mi ci sono messo e devo dire che è forse la cosa che più mi soddisfa di questo lavoro.
“Non siamo cambiati col tempo”, ma penso che se non sei stato tu a cambiare, è cambiato sicuramente molto di ciò che hai intorno. Cosa ti manca di più di quando facevi musica da ragazzino?
Niente, per me è esattamente lo stesso. Scrivo il volume 9 con la stessa voglia e felicità con cui ho scritto il primo. Al tempo sicuramente ero molto più arrabbiato, perché sentivo che c’era tanta roba che non mi piaceva e io volevo spaccare il culo a tutti, perché ero piccolo. E avevo sicuramente più spensieratezza, perché non sapevo che poi mi avrebbero ascoltato milioni di persone.
L’ultimo brano del disco mi ha riportato in una dimensione che pensavo di non sentire da tempo. C’è quell’attitudine dell’uno contro tutti, come se a scriverlo sia stato il Gemitaiz di 10 anni fa. In quale circostanza hai scritto questo pezzo?
L’outro l’ho scritta a casa mia, un pomeriggio, stavo ascoltando della musica classica in shuffle su Spotify ed è partito quel sample incredibile, uno dei più belli che abbia mai usato nella mia vita. Non potevo fare altro che prenderlo e loopparlo, l’ho un po’ pitchato con la stessa tonalità del pezzo originale, ma non c’era neanche bisogno di metterci la batteria, parte solo alla fine.
“Volevo nasce’ là, mica pe’ spaccia’ e anna’ in galera, ma pe’ rappa’ coi negri all’angolo ogni sera”, è una barra di “È Morto”, brano presente nel primo “QVC”. Sei ancora quella persona?
Quello che dicevo in quella rima era l’espressione del fatto che non importava dove fossi nato, io avrei percorso sempre la stessa strada. Ed è una cosa che tuttora penso, dico sempre a tutti che non son capace a fare nient’altro.
C’è una scena che ti piace particolarmente a parte quella italiana?
La scena italiana non mi piace particolarmente, ti dico la verità (ride, ndr). È veramente poco quello che mi piace, però ovviamente siamo belli rilevanti, c’è un sacco di bella musica che viene fuori dalla nostra nazione. In generale la maggior parte delle cose che ascolto sono quasi tutte americane, o comunque non italiane ecco.
Quale pensi sia il problema del rap italiano?
Il rap italiano è un po’ palloso. È difficile che prendo un pezzo di qualcuno e dico “ammazza senti che figata che ha fatto”. Io devo sentire Young Thug, capito? Devo sentire gente che è estroversa sul beat, mi piace ancora ascoltare le strofe di Eminem dopo vent’anni, perché lui ogni volta si inventa una cosa diversa. A me piace essere sorpreso con la musica.
Credi che l’arte sia lo specchio di un Paese?
Non necessariamente. In America c’è dell’arte incredibilmente stupenda e l’America è un paese fuori di testa. Ma nonostante ciò escono delle cose stupende.
Tornando al disco, nella traccia “Si Va pt. 3” c’è una citazione riguardo “i figli della notte”. Chi sono?
I figli della notte siamo noi. Nel sample di voce che senti ci sono dei lupi, ma è una trasfigurazione nostra. È di un film molto vecchio, “Dracula”, che mi è stato suggerito da Gemello. Anche lui è un malato di mente come me (ride, ndr), io e lui andiamo molto d’accordo dal punto di vista dell’empatia per l’arte. Siamo veramente affini sotto quel punto di vista, quindi gli ho chiesto “ma mettiamoci qualcosa di un film”, e un secondo dopo mi ha detto di metterci questo. Neanche ci ha pensato, era come se ce lo avesse in mente da una settimana.
Sono stata molto contenta di sentire anche la voce di Achille Lauro – seppur proveniente da un brano già esistente -, ho sempre sentito un perfetto feeling tra di voi.
Sì, già la quantità di musica che abbiamo fatto insieme lo testimonia senza ombra di dubbio. Veniamo dalla stessa città, dello stesso quartiere. Siamo cresciuti sulle stesse strade, lui è un anno più piccolo di me ma gli anni erano quelli, gli anni ’90.
Parlando di artisti internazionali, hai messo un artista nel disco che fino ad oggi non conoscevamo ed è D’African. Chi è? Come avete iniziato a collaborare?
È un ragazzo di Houston. Ci sono dei produttori con cui tutti i giorni mi mando musica, e un giorno Ombra mi ha detto “senti che figa sta roba”, e l’ho trovato fortissimo. Gli ho scritto su Instagram e gli è piaciuta la strofa. Ha tipo 2000 follower ma ha fatto praticamente cinque dischi, è troppo forte. Secondo me ha fatto forse la strofa più figa del tape, o sicuramente una delle più belle.
Parto dal presupposto che ho sempre trovato i tuoi dischi come una compatta fotografia di te, mentre i mixtape sono il luogo in cui si possono scoprire i dettagli della tua persona, quelli più nascosti. Come lavori su di essi? Hai un mindset diverso quando ti metti a scrivere per un disco o per un mixtape?
È proprio quella l’unica differenza tra un album e un mixtape, il modo con cui mi ci approccio. Spesso i mixtape sono stati più intimi dei dischi ufficiali, diciamo che sono una cosa che faccio perché mi piace. È una dimostrazione di stile e allo stesso tempo una cosa che faccio per i fan del rap. Poi può ascoltarlo chiunque e ne sono felice, ma quelli che ascoltano rap sanno che è un mixtape. Il disco invece è una cosa che devono sentire tutti, lo deve capire anche mia madre, tuo padre, tutti. Il mixtape è più selezionato.
In questo senso penso che il non poter utilizzare basi americane sia stato un cambiamento importante.
Uno dei motivi per cui ho smesso di usare basi americane è proprio il fatto che adesso volevo farmi le basi da solo, quindi per me è stata una cosa incredibile in realtà.
Se avessi potuto scegliere un paio di basi americane da mettere in questo progetto, quali avresti scelto?
Mi sono piaciute un sacco le basi del disco di SAINt JHN, ce n’è una che si chiama “Call Me After You Hear This” che secondo me è stupenda, se ci fosse stata l’opportunità l’avrei usata. Oppure adesso è uscita “Spicy” di Ty Dolla $ign e Post Malone, anche quella è molto bella. Ce ne sono state molte.
Ascolta qui sotto “Quello Che Vi Consiglio, Vol. 9”: