Il nuovo gruppo rap ligure nel segno della contaminazione e del multiculturalismo: «L’unico vero elemento straniero è questo mondo senza empatia».
La canzone più famosa della sua storia popolare, “Ma se ghe penso”, ha come protagonista un migrante. Genova, già nella sua etimologia (da “ianua”, in latino significa “porta”), è da sempre un varco affacciato sul mondo, un melting pot di culture che, ancora oggi, in quel dedalo impazzito di vicoli, ovvero il suo centro storico, crea e distrugge ponti, in un dialogo infinito che solo le città di mare sanno preservare. Ha legami arcaici e quasi mistici: Tabarka, gloriosa città tunisina, fu fondata dai genovesi, oggi è rievocata in modo trash nel nome di un night club del ponente cittadino. Anche Galata, distretto di Istanbul, fu realizzato dagli antichi zeneixi. Sono fili rossi che quasi magicamente riaffiorano: tra un piatto di tajine, un té marocchino e una pizza alla napoletana, preparati dal ristorante multietnico Lina da Rachid di via Gramsci, un punto di ritrovo a due passi dal Porto Antico, sputata fuori dalla storia e allo stesso tempo dal nulla, figlia naturale di questi tempi e di una città dalle tante pelli, naviga una nuova generazione di rapper e produttori. Genovarabe. Un nome programmatico.
Eravamo 7 amici da Rachid
Sette ragazzi, sette amici, diverse culture e diversi mondi, un collettivo che fa musica illuminato dalla stessa luce, quella della Lanterna: Helmi Sa7bi, Sayf, Marvin, Sossy, Willy, Vincé, Laboo. «Tutti vogliamo la stessa cosa, cioè scoprire chi siamo: parliamo la stessa lingua, quella del rap, in un mondo impazzito senza valori ed empatia, un mondo che ci pare l’unico vero elemento straniero», spiega Marvin, genovese classe 1997,ex componente di Cultura Blesh, capace di passare da barre intime ad altre imprevedibili.«Veniamo tutti da posti diversi, l’unica cosa che ci rappresenta è la musica che facciamo», prosegue Marvin, che se dovesse consegnare il testo di un suo brano al mare metterebbe “Freedom” all’interno di una bottiglia. Nelle prossime settimane usciranno vari inediti e l’album “Genovarabe”, pubblicato da Helmi e in cui collaborano tutti i componenti: sarà il primo innalzamento di una bandiera multiculturale che, a turno, tutti faranno propria sfornando canzoni e dischi sotto questo nome, già utilizzato come tag nella realizzazione di alcuni singoli e primi freestyle collaborativi.
La città e la sua costa, da levante a ponente, sono il teatro naturale di questo nuovo collettivo che è una telecamera puntata sulla strada e sui sentimenti, proprio come prevede la tradizione conscious della scuola hip hop genovese. Un appartamento in via Giovanetti, nel quartiere popolare di Sampierdarena, nel 2016, in cui vivevano e facevano musica, è stato un crocevia: tutti sono passati da lì, hanno incrociato i loro destini, iniziando a mischiare i propri immaginari.
L’immaginario
«Genovarabe è la fotografia dei quartieri della Genova di oggi, un mix di origini e identità. La canzone d’autore o il rap delle generazioni precedenti non bastano più a raccontarci, ma allo stesso tempo non potevamo che partire da qui, da una città dove la scrittura e quello che davvero conta nella vita sono al centro di tutto», dice Helmi, classe 1998, italo-tunisino, ritenuto da tutti il leader del gruppo. Benedetto da Tedua e Izi, nel 2022 ha pubblicato il suo primo EP “La Misére” fino ad arrivare a collaborare con un gigante come Samara in “Connexion”. «Dopo la Blazers Crüe e Drilliguria non è arrivato un nuovo gruppo capace di rappresentare il miscuglio dei migranti, degli italiani di seconda e terza generazione, e di quei genovesi che vivono calati nel multiculturalismo. Per questo era necessario creare qualche cosa di nuovo e autentico a livello artistico, ma che allo stesso tempo non tradisse la vocazione lirica e poetica di questa città», prosegue Sossy, classe 1996, di origini marocchine. È il “diavolo della Tasmania” di Genovarabe, un Taz che ha anche tatuato sulla pelle. Irrequieto e in movimento tra case di quartieri genovesi sempre diversi, si rispecchia in un brano come “Favela”. «Il nome “Genovarabe” lo ha usato per primo Helmi in una canzone, poi dopo poco tempo ci ha chiamato un professore dell’Università di Genova dicendoci che era interessato a capire che cosa fosse questo “nuovo gruppo” a livello sociologico, ma noi non eravamo ancora un gruppo – ricorda Sayf, baffetti e capelli dread – facciamo musica insieme, ci siamo conosciuti tra Genova e il suo levante proprio perché mossi dalla stessa passione e così ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: “è un segno, chiamiamoci così”».
Radici nel mondo
Sayf, nato nel 1999 da padre italiano e madre tunisina, è cresciuto a Santa Margherita, un borgo da cartolina poco distante dalla patinata Portofino. Nel gruppo lo chiamano “cuore bianco” perché è un buono, la sua è una delle penne più poetiche e pure della crew. I suoi pezzi migliori sono stati spinti anche da artisti del calibro di Madame: “Una cotta per te” è quello che, per ora, sente più suo. È una perla rara. Quelle di Sayf sono parole semplici e affilate: «Sì, arrivo da Santa, ma non da quella in cui vengono a fare aperitivo i milanesi con i macchinoni – sorride – io ho fatto il cameriere, non sono mai salito su una barca fino a vent’anni, ho origini umili». Genova, Marocco, Tunisia e anche Napoli: Genovarabe mette le radici nel mondo. «Vengo da Acerra, i miei, quando ero bambino, si sono trasferiti qui per lavoro – svela Vincé, classe 2003 – a scuola ero sempre solo, emarginato. Con la musica riesco a mostrare chi sono, i ragazzi mi hanno accolto nel gruppo e per me è stato come essere finalmente accettato». Vincé rompe il cliché del napoletano che rappa a Napoli, ha tatuato sia il nome di Genova che quello della sua città d’origine addosso, sputa barre crude o eleganti a seconda degli stati d’animo, e lo fa per affermarsi come ragazzo del Sud lontano da casa. «Genovarabe è questo, è senza confini. Non abbiamo bisogno di inventarci e cavalcare le storie gansta per creare hype, siamo noi le storie», dice Vincé, con lo sguardo fiero sotto il cappellino.
Un sound etnico
Willy e Laboo sono gli scultori del suono, i produttori. Il primo, nato nel 2002, ritenuto il “direttore d’orchestra” della crew, è partito dal mondo della techno per poi aprirsi al rap e lavorare spalla a spalla con Helmi, producendo tracce come “Poto” o “Come mai” di Sayf in uno studietto-garage a Recco, nel levante genovese. Laboo, nato a Genova nel 2000, con origini marocchine e portoghesi, si è fatto strada con i suoi beat etnici: “Pesos” di Helmi e “Lucciole” di Vincé sono un esempio del suo tocco. «La contaminazione, umana e musicale, è senz’altro il fulcro del progetto – concludono i due producer – c’è di più: non è semplice parlarne, ma alla fine tutti noi siamo delle persone che in qualche modo ci siamo sentite emarginate ed è anche per questo che, insieme, ci sentiamo una forza e abbiamo l’ambizione di lasciare un segno». Finito il pranzo da Rachid, i ragazzi di Genovarabe si dirigono verso i vecchi truogoli del centro storico in piazza Santa Brigida. Le case dai mille colori sembrano riflettere la loro molteplicità. Qualcuno all’angolo vende il fumo, una vecchietta porta le buste della spesa, due turisti inglesi chiedono informazioni, gli universitari di via Balbi flirtano, ragazzini di diverse etnie giocano a pallone poco più in là. Pezzi di realtà, frammenti di verità. L’odore acre del mare del porto arriva trascinato dal vento: Genova, ancora una volta, è al centro di un nuovo mondo.