Geolier e la rivincita del napoletano a Sanremo

A un primo esame, sembrerebbe che il fatto che oggi Geolier possa presentare a Sanremo un brano interamente in napoletano sia merito (ebbene sì) della Lega Nord. Nel 2009, infatti, era parte della coalizione di governo, e tra i suoi principali obbiettivi c’era quello di promuovere le autonomie territoriali e le specificità regionali. Tra cui, ovviamente, anche i dialetti. E siccome gli umori politici del momento hanno sempre avuto una certa influenza sulla Rai e sul Festival di Sanremo, fu deciso un cambio in corsa. Fino a quel momento, almeno stando al regolamento, erano ammesse solo singole parole o modi di dire in dialetto, o tutt’al più qualche verso; da quell’edizione in poi è stato ufficialmente possibile presentare canzoni scritte in dialetto. «In barba alle cornacchie e agli elegantoni, il Festival si apre alle lingue materne, rompendo un tabù vecchio di 60 anni», aveva commentato al Corriere della Sera l’allora ministro Luca Zaia. Ma c’era anche chi non aveva preso benissimo la novità. Tipo la FIMI: «I politici dovrebbero favorire l’esportazione della musica italiana nel mondo, invece di trasformare Sanremo in una festa di paese», aveva dichiarato un portavoce, sempre al Corriere. E il consiglio comunale di Sanremo aveva presentato un’interrogazione: «Il Festival della Canzone Italiana deve rimanere tale. Non ci sembra opportuno mischiare la lana con la seta».

In realtà, però, sembrerebbe trattarsi di una mossa di comunicazione politica: prima del 2009 il dialetto si era già sentito parecchio dalle parti dell’Ariston, come ci spiega Eddy Anselmi, giornalista e massimo esperto della storia del Festival. «Ben quindici artisti (da Lina Sastri a Roberto Murolo, da Peppino Di Capri a Nino D’Angelo) avevano già presentato canzoni con testo interamente in napoletano. A cui vanno ad aggiungersi altri cinque brani in altri dialetti, più una manciata di canzoni integralmente in inglese (e una integralmente in francese) negli anni dal 1980 al 1984». Poi ci sono quelli che sono scesi a compromessi: il caso più celebre dell’era moderna è stato probabilmente quello dei Tazenda, che nel 1991 avevano portato in gara Spunta la luna dal monte, ispirata alla tradizione dei tenores sardi. Per poter concorrere, però, la loro canzone – che in origine si intitolava Disamparados ed era tutta in sardo – era stata tradotta in gran parte dal cantautore Pierangelo Bertoli, che si era poi esibito con loro, di fatto trasformandolo in un brano quasi completamente in italiano. Nel 1997 ci avevano riprovato i Pitura Freska, gruppo ska goliardico veneziano, con la loro Papa nero, in cui un esotico Sua Santità «’scolta ‘e ‘me canson in venessian / ma che el xé nero african»: si trattava però di un semplice ritornello. 

Geolier quindi non è il primo, ma è senz’altro uno dei pochissimi coraggiosi di una nuova era. La cosa più curiosa, in effetti, è che dal liberi tutti del 2009 in poi praticamente solo tre artisti hanno osato portare la loro lingua madre in gara. Uno è Davide Van De Sfroos, che nel 2011 usò il dialetto comasco in Yanez; per il resto, i partenopei sono stati praticamente gli unici a essersi presi il rischio, forse perché Napoli e la Campania intera hanno sempre avuto un rapporto speciale con la loro lingua. Il dialetto salernitano di Nu jorno buono ha portato Rocco Hunt a vincere Sanremo Giovani nel 2014, anche se era presente solo in alcune strofe; e anche Quando sono lontano di Clementino, del 2015, aveva il ritornello in dialetto. E poi ovviamente c’è il maestro Nino D’Angelo, con due duetti: nel 2010 con Maria Nazionale (Jammo ja) e nel 2019 con Livio Cori (Un’altra luce). Il problema, in effetti, non è tanto il poter presentare un brano in siciliano stretto o in valdostano: è convincere il direttore artistico a prenderlo in gara, e ad assumersi il rischio che sia un flop al televoto o nel voto della sala stampa. A convincere Amadeus del valore di I p’me, tu p’ te, la canzone di Geolier che abbiamo ascoltato ieri sera, è stata soprattutto la forza dei suoi numeri: è l’artista più venduto del 2023, ed è ascoltato in tutta Italia e in ogni angolo d’Europa. Non ci si può più nascondere dietro la paura delle barriere linguistiche, perché è ormai evidente che il grande pubblico e la critica sono davvero pronti. La scelta di Geolier di salire sul palco dell’Ariston e intonare un brano così identitario ha fatto scalpore proprio per questo: anche se non è il primo a fare questa scelta stilistica, è probabilmente il primo a rischiare di vincere davvero, forte del suo enorme successo.

La cosa buffa di tutto ciò, comunque, è che a leggere alcuni commenti social al momento i più scontenti dell’avventura sanremese di Geolier sembrerebbero essere proprio i napoletani. O almeno, alcuni napoletani particolarmente tradizionalisti e conservatori. Ogni anno, infatti, Tv Sorrisi e Canzoni pubblica in anteprima tutti i testi delle canzoni di Sanremo, che restano inedite fino alla prima serata. E dopo aver letto quello di I p’me, tu p’te è partita una vera e propria shitstorm, capitanata da alcuni celebri scrittori partenopei (Maurizio De Giovanni e Angelo Forgione in testa) che si lamentano del fatto che quello di Geolier sarebbe un napoletano decisamente sgrammaticato e imbastardito, un napoletano che viene dalla strada insomma, e che anche i dialetti hanno regole e sintassi da seguire. Il Movimento Neoborbonico, un’associazione che promuove la storia e l’orgoglio napoletano, è arrivato addirittura a scrivere che «il testo pubblicato era a tratti indecifrabile, e abbiamo inviato il testo corretto in lingua napoletana alla casa discografica milanese di Geolier. Il rapper è un giovane che sta portando la nostra cultura in giro per il mondo e non è colpa sua se nelle scuole non si insegna il napoletano». Viene da chiedersi se gli spettatori nazionalpopolari di Sanremo riusciranno ad abituarsi prima al dialetto o al linguaggio senza filtri (anche grammaticali, a volte) dei rapper.