
Nel 2016, poco prima che la sua vita svoltasse per sempre, Ghali consegnava pizza kebab e svolgeva altri lavoretti per 30 euro al giorno. Oggi, a neanche otto anni di distanza, quel comfort food che più di altri sposa la nostra cultura gastronomica verace con la cucina halaal, è diventato a tutti gli effetti il suo iconico marchio di fabbrica, oltre che il passaporto nostalgico per le sue origini. Nel mezzo di questi anni che lo hanno separato dalla vita di prima, c’è un viaggio musicale che ha attraversato già due, se non addirittura tre generazioni. E nel mentre, qualche piccola grande soddisfazione, come quella di essere stato inserito dal Time fra le 100 personalità del 2023 o quella di diventare il protagonista di uno straordinario reportage di Alia Malek uscito sul New York Times Magazine.
Parto proprio da qui per raccontare l’ultimo lavoro di Ghali, perché dentro quelle pagine, tra le quali si uniscono in un racconto corale voci – come quella di Roberto Saviano – che più di altre hanno contribuito all’investitura pop del re di Baggio boulevard, ci sono anch’io. Raccontando ad Alia il ruolo di Ghali agli inizi, le ho spiegato come la contaminazione della lingua italiana con l’arabo, il francese, lo spagnolo e l’inglese avesse creato un territorio di rivendicazione linguistica per tutti coloro che, come lui, si sentivano esclusi dai diritti di cittadinanza e d’integrazione. Questo “maltrattamento” linguistico, che gli è costato negli anni le antipatie dei sovranisti, lo ha reso però un forte motore di avvicinamento culturale tra la periferia e il centro, tra i nipoti e le nonne, tra il Raï algerino e Michael Jackson.
Ecco perché, a differenza di altri colleghi che in questi giorni hanno definito il nuovo album di Ghali come la prova definitiva che si sia perso, trovo questo “Pizza Kebab Vol.1” un tassello coerente della sua carriera, oltre che uno spoiler potentissimo sul futuro della trap italiana ed europea, che guarda sempre di più al suo passato. Ghali è ancora il “prodigioso ragazzo di strada degli esordi” e lo dimostra con i fatti: la musica. Prendiamo “Celine”, la ballata rage che farebbe sentire a proprio agio anche il Playboi Carti di “Die Lit”. Il beat di KIID crea una scena frenetica, e i suoni distorti di sottofondo si insinuano come campane demoniache ad ombreggiare la voce ferma di Ghali e del compagno di label Digital Astro, mentre sentenzia: “Soldi continuano ad entrare, gente di merda continua ad uscire. Sembra uno scambio piuttosto equo, non vedo rivali, mi sento cieco”. Direi che nessun’altra produzione rap di una major nel 2023 in Italia suona così sconvolta e rivoluzionaria come questa.
Ma dietro la facciata ipercinetica del suono, che potrebbe essere sintetizzata al meglio da quel muro di casse sulle quali cui si è esibito durante il release party in tuta comfort Bape (anche questo, molto 2016), si nascondono in realtà dei potenti flussi di coscienza sul significato e le responsabilità della crescita (“A trent’anni non ho miti da seguire / A trent’anni ho solo miti da sfatare”), sui soldi (“Quante cazzate sul mio conto / quanti zeri sull’altro”) e sui vincoli della discografia (“Riconfermarsi ogni volta è uno sbatti”).
La propria riconferma, Ghali la trova invece nel recinto della nostalgia, un’inviolabile zona di comfort all’interno della quale poter sperimentare e innovare. Un territorio in cui la sospensione del giudizio diventa l’unica chiave per aprire la porta di una scena stantia, regalando una ventata fresca e – perché no – anche un po’ di divertimento ad un mercato sempre più noioso e monotono. In questa curiosa “operazione nostalgia”, che negli ultimi mesi sta riportando molti artisti proprio là dove hanno iniziato, Ghali sembra l’unico ad aver capito che le origini, oltre a raccontare del proprio passato artistico, sono utili perché ci dicono molto sul presente e sul futuro. Non si spiegherebbe altrimenti una traccia come “Paura e delirio a Milano”, che per la detonazione trap che ha fin dalle prime note, orchestrate al meglio dagli “evil twin” della nuova scena del beatmaking italiano – Sadturs e KIID – sembra arrivare direttamente da quel 2016 dal quale tutti, fino a pochi mesi fa, cercavano di prendere le distanze.
La responsabilità di Ghali è in questo momento enorme. Mentre porta avanti la promozione di “Pizza Kebab Vol.1”, che fin dal titolo lascia presagire una futura prosecuzione del progetto, è stato nelle ultime ore annunciato tra i big della 74esima edizione del Festival di Sanremo, per la prima volta in gara. Ed è proprio sul palco dell’Ariston che incontrerà e si “scontrerà” con Geolier, assieme al quale ha appena collaborato ad un altro dei brani dell’album – “Tanti soldi” – che contiene tra l’altro un sample dell’iconica “Mi sei scoppiato dentro al cuore” di Mina. Questa ballata distopica racconta la vita di strada e connette – in un sottile filo rosso che soltanto Ghali è in grado di tracciare – gli Outkast con il poeta palestinese Mahmoud Darwish, allo stesso modo delle uniche collaborazioni internazionali di “Pizza Kebab Vol. 1”: “Safi Safi” con il rapper marocchino Draganov e “Buonasera”, con il fuoriclasse algerino Soolking.

Anche in queste collaborazioni internazionali, che ad un primo ascolto distratto appaiono come due semplici e vibranti melodie electro chaabi, sono in realtà nascosti dei messaggi politici ben più profondi: riferimenti al razzismo, alle forze dell’ordine, alle seconde generazioni. E qui, torniamo proprio dove abbiamo iniziato: al 2017, ad una delle prime interviste di Ghali. Roberto Saviano cercava di capire come mai questo giovane rapper non volesse affrontare apertamente i temi politici. Ghali gli rispose che per lui “parlare di politica è come andare dal commercialista: non ci capisco nulla”.
Eppure negli anni successivi, anche senza rendersene conto, Ghali ha continuamente affrontato temi politici, con un’aderenza tra la sfera artistica e quella personale che in pochi – nonostante gli altisonanti proclami – hanno dimostrato. Mentre cantava “Bayna” nel suo precedente album “Sensazione Ultra” (“Mediterraneo / tra me e te il Mediterraneo / il volto familiare di un estraneo / orfano come un nuovo ateo”), donava una barca di nome Bayna all’Ong Mediterranea, impegnata nel soccorso e nell’assistenza dei migranti in mare. O ancora, mentre in Italia infuriavano i dibattiti sullo ius soli e sulle seconde generazioni, Ghali prendeva posizione con un feat. assieme a colui che viene considerato il portavoce della seconda generazione del gangsta rap italiano, Baby Gang (“Ora che shisha è il nuovo sushi / arabo Shakespeare / I fra’ son nati oppressi / per questo crescono aggressive”).
E allora mi piacerebbe che anche questa volta Ghali, con la lungimiranza che lo contraddistingue, si facesse carico della più grande responsabilità politica che ha in questo momento: (ri)portare anche il rap e la trap a Sanremo. Oggi sì, anche questo è un atto politico. Un po’ come parcheggiare una Rolls Royce alle due e mezza del mattino alla periferia di Milano. E chissenefrega se poi la Rolls Royce disappear. La strada dà, la strada toglie.