Esistono innumerevoli motivi per cui un essere umano di giovane età decide di andare in discoteca. Per il sound; per fare serata; per sfoggiare l’outfit giusto; perché lì è più facile approcciare ragazzə che hanno voglia di essere approcciatə. Negli anni ‘90, però, il motivo era soprattutto uno: per ballare. Anche (anzi, in special modo) se la coordinazione non era il tuo forte. Il che richiedeva una musica di sottofondo sufficientemente democratica da venire incontro alle capacità di tutti, dal più disinvolto al più legnoso, dal più sano al più fatto, dal più estroverso al più timido. Quella musica, basata su ritmiche semplici ma ossessive, su un suono ripetitivo ma evocativo, su poche frasi facilissime da memorizzare e su tanta, tanta melodia, era la musica dance. Gli italiani erano i più bravi a farla. E Gigi D’Agostino, per gli amici Gigi Dag, era il più bravo di tutti.
Per capire il perché la notizia della sua ospitata a Sanremo 2024 sia stata accolta come un trionfo, però, bisogna fornire un po’ più di contesto. Non basta quanto detto sopra, e non basta neanche sapere che la sua performance, in collegamento dal palco della famigerata nave da crociera ormeggiata in rada, rappresenta il suo ritorno dopo un lungo periodo di malattia lontano dalle scene («Purtroppo da alcuni mesi sto combattendo contro un grave male che mi ha colpito in modo aggressivo: è un dolore costante, non mi dà pace» aveva scritto su Instagram nel 2021). Dietro alla grande gioia collettiva di saperlo al Festival c’è di più: il riscatto che simboleggia per milioni di artisti e ascoltatori che non si erano mai sentiti particolarmente rappresentati dalla tv generalista. Non sarà solo Gigi Dag ad arrivare nelle case di tutta la nazione, ma una moltitudine di eroi mai celebrati a sufficienza: i dj che hanno portato il sound italiano di quegli anni sul tetto del mondo, ma di cui spesso all’epoca si ignorava perfino che fossero delle nostre parti.
La parabola della dance italiana di fine anni ‘90 – detta anche “italo dance” o “la commerciale”, come veniva chiamata in gergo per via delle sue capacità di raggiungere cifre da capogiro in termini di dischi venduti – ricorda per certi versi quella della trap di oggi: un sound estremamente generazionale, adorato da milioni di giovani e malvisto dagli adulti, snobbato dai critici, passava solo su alcune radio e su tutti gli altri mezzi di comunicazione quasi non se ne sentiva parlare. Eppure era una delle poche eccellenze da esportazione della nostra industria discografica: personaggi italianissimi come Robert Miles, Prezioso o gli Eiffel 65 erano ai vertici di tutte le classifiche europee. Era difficile liberarsi dallo stigma che accompagnava il genere: era considerato roba da illetterati, fatta da gente che non aveva studiato musica e che non suonava nessuno strumento, e soprattutto creata ad hoc per sballarsi in luoghi di perdizione in cui i bravi ragazzi non dovrebbero proprio mettere piede, ovvero le discoteche. A livello mediatico si era creata una sorta di barriera invisibile tra la musica di largo consumo e quella da dancefloor. In alcuni contesti capitava che le due platee si incrociassero, come al Festivalbar; ma non certo non al Festival di Sanremo.
Gigi D’Agostino è sempre stato la punta di diamante di quella scena: un orgoglioso torinese di origini campane, figlio di un operaio e di una casalinga, che aveva mollato la scuola da elettricisti al primo anno di superiori per inseguire il sogno di mettere i dischi nei locali. Nel 1999, dopo una lunga gavetta, aveva conquistato le charts di mezza Europa con L’Amour Toujours, un doppio album costituito da un CD di canzoni più orecchiabili (tra cui La Passion) e un altro di canzoni più pestone (tra cui Bla Bla Bla). Nonostante l’élite della musica italiana faticasse a capire il perché del suo straordinario successo, aveva continuato a tirare dritto per la sua strada, senza piegarsi alle logiche del prestigio alla ricerca di un “salto di qualità” quanto mai improbabile – come invece avevano fatto gli Eiffel 65, che per presentarsi a Sanremo nel 2003 avevano molto edulcorato il loro stile. Anziché vivere di rendita, riproponendo all’infinito brani sempre uguali a se stessi, qualche anno dopo si era inventato un nuovo genere, il lento violento (che dà anche il titolo a un suo album del 2007). Aveva raggiunto una popolarità straordinaria anche valorizzando il ruolo del dj: è stato tra i primi italiani a fare dj set con un suo sound system, anziché appoggiarsi agli impianti dei locali o dei live club.
Nel frattempo le mode sono cambiate e l’EDM di oggi – più zuccherosa del pop e dall’estetica estremamente instagrammabile – non assomiglia affatto a quella dance un po’ sgangherata e ignorante degli anni ‘90. I dj e i produttori italiani cominciano a ricevere un riconoscimento anche in contesti davvero nazionalpopolari, vedi il caso dei Meduza superospiti a Sanremo nel 2022 o di Benny Benassi all’Eurovision lo stesso anno. Ma quella generazione di pionieri, per cui Gigi Dag è sempre rimasto un punto di riferimento, è rimasta parzialmente fuori dalla narrazione. Si è sempre in tempo per colmare la lacuna, però. Anche se il diretto interessato si schermisce dinnanzi a tanto clamore («È una prima volta, io la tv non sono mai riuscito ad affrontarla per la mia timidezza estrema. Mi fa paura: per me è fantascienza andare in tv» ha confessato in una recente intervista al Corriere della Sera), la sua presenza su un palco così importante è la consacrazione tardiva di un movimento che è sempre esistito, ma che per snobismo diffuso era relegato ad altri circuiti. Era ora.