Non sempre gli edifici che ci circondano devono necessariamente essere delle squadrate e spigolose scatole colorate di varia altezza dotate di qualche apertura che collega interno ed esterno. A insegnarcelo sono da sempre stati quegli architetti che hanno deciso di sovvertire gli abituali canoni costruttivi a favore di un atteggiamento progettuale che convogliasse nell’architettura ben più di ciò che potesse risultare puramente funzionale. È vero, se viviamo in un qualsiasi paese o al di fuori del centro storico di una grande città, il panorama architettonico non offre altro che blocchi di mattoni e cemento. Tuttavia, nel corso della storia, sono state numerose le volte in cui l’architettura ha virato verso l’ottenimento di risultati inediti e volutamente eclettici, basti pensare al fenomeno diffuso in tutta Europa dell’Art Nouveau di fine 1800 o al movimento postmoderno del secolo successivo. Nel calderone di tutte queste esperienze, però, è accaduto che alcuni edifici assumessero connotazioni a noi incredibilmente familiari, venendo plasmati volontariamente o involontariamente a nostra immagine e somiglianza. Semplici modi di dire come “Mi sembra di parlare con un muro!” o “I muri hanno le orecchie”, dunque, possono rivelarsi tutt’altro che fantasiosi e surreali.
Ovviamente non esistono – almeno per ora – architetture capaci di interagire con l’uomo al pari di veri e propri esseri viventi, ma esistono edifici dotati di forme che riprendono, più o meno fedelmente, i tratti caratteristici della nostra fisionomia, assomigliandoci più di quanto si possa immaginare. Ci troviamo di fronte alla cosiddetta architettura antropomorfa, ovvero quella pratica che – come indica l’etimologia del termine “antropomorfo”, composto dalle parole greche anthrōpos (uomo) e morphē (forma, figura) – consiste nel dare la forma di persone a edifici o a parte di essi. Occhi, bocca o naso, ma anche interi corpi umani, possono così figurare come elementi chiave dell’architettura e hanno la possibilità di entrarvi a fare parte come elemento decorativo o come parte integrante della struttura. Sebbene non si tratti di una disciplina codificata o di un movimento che ha riunito sotto lo stesso intento numerosi progettisti, è comunque possibile parlare di questa peculiare esperienza cercando di connettere gli esempi che sono attualmente sparsi in tutto il mondo.
Realizzare architetture secondo la fisionomia umana non è qualcosa di necessariamente legato alle pratiche cronologicamente più vicine a noi, provate a pensare alla struttura delle colonne greche e romane dove base, fusto e capitello sono esattamente gli analoghi dei nostri piedi, corpo e testa, ma anche a quei casi in cui gli stessi capitelli riprendono le fattezze di veri e propri volti umani.
Tornando alla contemporaneità, uno dei casi più recenti di architettura antropomorfa lo incontriamo camminando per le strade di Londra. Nel 2014 lo scultore britannico Antony Gormley ha sviluppato un intervento site-specific per il Beaumount Hotel della capitale inglese. A cavallo tra scultura e architettura, la struttura si presenta in piena coerenza con il linguaggio espressivo dell’artista e rappresenta un corpo umano piegato sulle proprie ginocchia. Sebbene il rimando alla fisionomia umana non sia immediatamente decifrabile, soprattutto a causa della sintesi formale a cui giunge l’artista nello sfruttare volumi squadrati, a un osservatore più attento non possono sfuggire i piedi che fuoriescono dall’edificio, le braccia incrociate appoggiate sulle ginocchia e persino il volto composto da quei volumi in acciaio che possono sembrare un naso e delle orecchie. Se esternamente l’opera impiega una mimesi umana degna dei suprematisti russi, internamente diventa uno spazio abitabile nel vero senso della parola. Nell’unica stanza presente, con 4 metri quadrati di superficie e 10 metri di altezza, gli ospiti non trovano alcun mobile se non il letto necessario per trascorrere la notte, completamente circondato dalle pareti rivestite in legno scuro: ecco che un corpo stilizzato diventa un habitat in cui soggiornare.
La singolare opera di Antony Gormley non è di certo l’unico caso in cui un progettista abbia deliberatamente deciso di imitare la figura umana attraverso elementi architettonici. In Italia, per esempio, esiste La Scarzuola, una residenza locata nella provincia di Terni unica nel suo genere che Tomaso Buzzi ha realizzato tra il 1958 e il 1971 per dare vita alla sua città ideale. Si tratta di un progetto ricco di particolari nascosti e dettagli tutti da scoprire, che insieme costituiscono un immaginario che definire surreale, fiabesco e onirico sarebbe riduttivo. Tra il mare magnum degli espedienti architettonici messi in atto, compare proprio un copro umano, più nello specifico un corpo di donna completamente nudo e privo dei quattro arti e della testa. Non mancano poi altri connotati umani sparsi per tutta l’architettura, tra cui occhi e orecchie che sembrano guardare e ascoltare tutto ciò che vi accade al suo interno.
Dobbiamo spostarci in Giappone, invece, per scoprire un altro caso di deliberato antropomorfismo in architettura. “Face House”, questo il nome del progetto dell’architetto Kazumasa Yamashita, è un’abitazione situata a Kyoto che si distingue nettamente da tutte le altre case del vicinato. Ciò è dovuto non tanto all’energica tinta gialla dello stabile, quanto alla sua facciata con occhi, naso e bocca. Il risultato è un volto dai lineamenti robotici che si affaccia sulla strada e si configura come una bizzarra presenza nel panorama urbano della città. Il progetto venne realizzato nel 1974 per un graphic designer ed è a tutti gli effetti una casa come le altre, sviluppata su più piani e dotata di tutti i servizi e confort necessari per viverci all’interno: è la sua simpatica facciata a forma di volto umano ad averla resa iconica e riconoscibile tra le strade della città giapponese.
Fino ad ora abbiamo visto solamente esempi di architettura antropomorfa nei quali la volontà dell’architetto è stata esattamente quella di ottenere un risultato che si ponesse in analogia il più possibile con i nostri corpi. Tuttavia, la declinazione più sorprendente di questo curioso modo di costruire gli edifici riguarda i casi in cui la somiglianza a volti e corpi umani non è volutamente ricercata, ma avviene in maniera inconscia oppure si verifica tramite un riconoscimento di specifici attributi da parte dell’osservatore solamente a posteriori. In questo caso a giocare un ruolo chiave è la cosiddetta pareidolia, ovvero quella tendenza che ci spinge ad associare qualcosa che vediamo per la prima volta a persone, animali o cose che già conosciamo. Ognuno di noi ha sperimentato questo fenomeno almeno una volta nella propria vita senza nemmeno saperlo: riconoscere un oggetto nella forma delle nuvole o il profilo di una persona nella cresta di una montagna sono solo alcuni comuni esempi di pareidolia. Ma ad accadere ancora più frequentemente è il riconoscimento di connotati umani sulle facciate di case e palazzi presenti nelle nostre città.
Sfruttando involontariamente la nostra conoscenza visiva e il nostro trascorso, tendiamo a dare un significato a forme e composizioni di elementi che in realtà un senso non lo possiedono affatto. È proprio per questo che un portone di una casa e due finestre posizionate al primo piano dell’edificio diventano immediatamente un volto che guarda sulla strada e, al pari di quando ci divertiamo a notare che i buchi delle prese elettriche americane assomigliano ad un’emoji sbigottita, anche accorgersi di una certa corrispondenza tra elementi architettonici e caratteristiche fisionomiche non è altro che una naturale elaborazione della nostra mente. Infine, sulla pareidolia applicata alle abitazioni esistono interi studi che cercano di esaminare anche il processo inverso, ovvero per quali motivi le case condividono così tanti tratti in comune con i volti umani.