Guè parla d’amore, ma lo fa a modo suo

Nei giorni dell’annuncio di Tropico del Capricorno, Guè ci ha tenuto particolarmente a svelare i significati dietro il nome del disco. Da un po’ di tempo con la sua solita ironia e col suo distacco intellettuale Guè ha sdoganato il termine ‘subumani’ per definire una certa parte di pubblico e addetti ai lavori, ed è forse per questo che ha fatto di tutto per rendere esplicita la scelta del titolo.

Tra le varie cose, il Tropico del Capricorno segna il punto in cui il sole tocca lo zenit una volta all’anno, pertanto, come ha affermato l’autore in una storia, l’album doveva segnare «un punto d’arrivo» per la sua carriera.

Un ragionamento del genere, prima di esprimere qualsiasi giudizio sul disco in sé, impone di riflettere sul momento della carriera di Guè. Cosimo Fini arriva da un percorso in cui, negli ultimi anni, ci ha regalato alcuni degli episodi più preziosi della sua carriera: e non lo ha fatto solo grazie alle tonnellate di tecnica e stile a cui ci ha abituato, ma anche con scelte musicali dalla matrice strettamente hip hop. Prima il ritorno della saga Fastlife col suo spirito da mixtape; poi le ospitate di Jadakiss e Rick Ross su un progetto già di per sé solido come Guesus; le sonorità sperimentali di quel gioiellino che è stato l’album con Bassi; il tanto atteso ritorno dei Club Dogo, fino ad arrivare alla comparsata al Biko per accompagnare Benny the Butcher nel suo live a Milano.

Il messaggio è chiaro: dopo aver soddisfatto lo zoccolo duro della fanbase, se vogliamo anche la sua parte più esigente, toccare lo zenit significava riaprirsi alla fetta di pubblico più ampia possibile ma senza perdere la consistenza degli ultimi progetti. Sembra essere questa, a giudicare dalle parole del Guercio, la visione dietro Tropico del Capricorno.

E quale miglior espediente per riuscirci, visti i suoi trascorsi, del rapporto con le donne? Quella del pimp è una delle figure più ricorrenti del mondo dell’hip hop e nessuno in Italia ha saputo elevarla ad arte più di Guè (del resto, Pappone rimane tutt’oggi uno dei suoi massimi capolavori). 

Quale sia il tema portante dell’album appare già dalla prima canzone, come forse potevamo immaginare dal feat di Rose Villain. Di solito Guè riserva la prima traccia per il pezzo più spaccone, pieno di punchline e di virtuosismi che solo lui può permettersi (Dichiarazione, Pequeño, La G la U la E pt2, Prefissi ecc.). Anche in questo caso Guè ci mette stile e gioca con la metrica a proprio piacimento, ma stavolta davanti a lui, nelle sue strofe, c’è un’interlocutrice femminile, non un hater da fare a pezzi. Un cambio di paradigma che diventa ancora più accentuato nel terzo episodio de La G la U la E, quello che di solito, alla lettura della tracklist, viene individuato come il pezzo spietato del Guercio e che invece si rivela come uno dei più musicali: parte da una serata in discoteca insieme a una delle sue tante partner e finisce per raccontare di una vacanza a Saint-Tropez all’insaputa del fidanzato di lei. 

Insomma, anche in un disco in cui le donne sono l’architrave, Guè non ha preso le parti dei «cantanti italiani sfigati, sempre innamorati, una tipa li ha sempre lasciati». 

Se deve parlare di relazioni lo fa a modo suo, con la puzza della strada e col suo linguaggio. È questa la vibe, come afferma nel ritornello dell’omonima canzone. Il modo in cui Guè parla di amore e sesso non ha nulla a che vedere con la tradizione italiana, perché in realtà Guè raramente arriva a parlare di innamorarsi o cose del genere. 

Le relazioni sono solo un prisma attraverso cui osservare il suo mondo. Un mondo soggiogato da un materialismo che, come ha affermato più volte lui stesso nei suoi pezzi, finisce per opprimerlo («Sognavo indipendenza, ma sto in dipendenza fisso», dice in Gazelle), e con le donne vale lo stesso: quella verso il genere femminile è soprattutto una dipendenza. Uno di quei vizi che, come ha affermato nell’intervista con Paolo Sorrentino uscita sul Venerdì di Repubblica, ti attraggono «ma alla fine non ti lasciano niente». Tutto ciò determina l’insoddisfazione di Guè nei suoi pezzi, incapace, come racconta con tono annoiato, di ricambiare ciò che le amanti provano per lui.

«Ho fatto un patto con Venere perché non mi innamori», afferma in Gazelle, che insieme a Le Tipe e Pain is Love probabilmente costituisce il pezzo chiave dell’album. Tre pezzi dall’afflato malinconico. Il primo valorizzato da un ritornello quasi sussurrato e da una Ele A perfetta per quel mood, forse il miglior feat dell’album. Il secondo più esplicito, in cui quel «Mi piacciono le tipe, le tipe», sembra quasi richiamare Girls, girls, girls di Jay-Z e, proprio come Hov in quel pezzo, Guè procede a elencare tutti i tipi di donna che lo ossessionano, per etnia e personalità. È così che, con ironia, arriva a definirsi «il rapper più femminista». Salvo poi, nella canzone successiva, Pain is love, scoprirsi per una volta fragile e dalla parte di chi si trova «in astinenza dai messaggi, aspettando che rispondi», con un ribaltamento di quello che di solito è il suo ruolo all’interno della relazione.

Insomma, Guè può parlare di amore/sesso con leggerezza ma anche con introspezione. Il filo conduttore dell’album in ogni caso appare chiaro e anche i featuring, per quanto si tratti per lo più di nomi reclamizzati, contribuiscono a dargli coesione: Rose Villain, Frah Quintale, Tony Effe, Chiello, Ernia, in modi diversi sono tutti professionisti quando si tratta di toccare certi temi. Per non parlare di Tormento, il padre della seduzione nell’hip hop italiano, in formissima col suo tono graffiante (in quanti si sarebbero aspettati lui ed Ernia a parti invertite? E invece abbiamo avuto Torme alla strofa ed Ernia al ritornello).

Il tutto sul tappeto musicale curato da Pietrino 2nd Roof (che adesso si chiama ChefP) e Andy Sixpm e impreziosito da alcune divagazioni. Le sonorità raggae tessute da Bassi per “Nei tuoi skinny”, il pezzo con Frah Quintale, il sample di Pino Daniele nella canzone d’apertura. Per non parlare del campione di “Acqua e sapone” degli Stadio in “Meravigliosa”, ennesima dimostrazione di quanto le sonorità anni ’80 si sposino col suo rap e, soprattutto, conferma di quanto non esista, in Italia, nessuno con il suo gusto musicale nella scelta dei beat, una qualità spesso sottovalutata ma che difatti ha contribuito a renderlo la figura più importante del genere nel nostro Paese. Il fatto di potersi permettere di avere il tag «la musica de Harry Fraud» in apertura di un suo pezzo, Pain is love, è solo il coronamento del percorso fin qui, davvero un punto d’arrivo per tornare alle sue parole, visto che mai un rapper italiano aveva potuto collaborare con un produttore di questo calibro.

Tutto ciò, comunque, non basta a nascondere una certa inquietudine. È ciò che si cela sotto la patina del lusso e che Guè, di tanto in tanto, lascia emergere nei suoi pezzi. Sono passati dieci anni da Vero, quello che per buona parte dei suoi fan resta il suo capolavoro. Guè lo chiudeva con un pezzo quasi autobiografico, in cui affermava che l’«odio vero uccide l’amore perché è più sincero». Era naturale, allora, che un disco come Tropico del Capricorno, dove nonostante tutte le frequentazioni l’unico amore sincero espresso da Guè rimane solo quello per sua mamma e sua figlia, dovesse risolversi nell’amarezza di Argonauta, un flusso di coscienza che diventa disprezzo nei confronti di tutto quel campionario di personaggi da cui vuole astrarsi: i malati di mala, i gangster di plastica, i finti ricchi. Figure impossibili da evitare in quel sottomondo di cui Guè è cantore, innamorato ma anche anche schiavo, e che di sicuro non ha ancora finito di raccontarci.