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Quando Arsenal e Norwich City si affrontarono allo stadio di Highbury il 15 agosto 1992 per la prima giornata di quella stagione di Premier League, appena dietro la porta, sul lato nord dell’impianto londinese, si stagliava un’alta parete ricoperta da un murale variopinto che ritraeva colorati tifosi in festa, in una rivisitazione vagamente contemporanea di un dipinto impressionista. Non era solo la visione plastica del cantiere di ricostruzione di una gradinata di Highbury, ma anche, a posteriori, l’evidenza di un passaggio chiave nel modo di intendere il calcio a livello visivo.
Oggi lo stadio è diventato oggetto di brandizzazione del calcio, elemento attraverso cui veicolare i flussi visuali di sponsor e di identità dei club (spesso le due cose si mescolano e si confondono), luogo che più è in grado di essere esteticamente riconoscibile, più sarà capace di trasmettere un forte senso di appartenenza al tifoso.
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La rivoluzione “estetica” arrivò ovviamente con il processo di mediatizzazione del calcio, iniziato negli anni ’80, ma concretizzatosi nel decennio successivo. L’avvento delle tv e conseguentemente delle partite sempre più spesso trasmesse in diretta imposero la ricerca di un “vestito” più grazioso e piacevole da donare agli impianti dedicati al calcio, che peraltro, a fine anni ‘80, in tutta Europa erano spesso edifici decadenti, poco curati e figli di una progettazione vecchia di mezzo secolo. La Premier League inglese tracciò la strada da seguire per tutti gli altri, alle prese com’erano i suoi club con una quasi totale ristrutturazione (o ricostruzione) degli stadi e con il loro adeguamento a nuove leggi legate alla sicurezza dei tifosi e alla repressione del fenomeno degli hooligans. In effetti, come sempre è stato nel corso del Novecento dell’architettura sportiva, le scelte fatte nella progettazione di uno stadio hanno sempre risposto a un’esigenza funzionale che arrivava dai club, dall’evoluzione dello sport o della società.
L’obbligo di introdurre i seggiolini in ogni settore di uno stadio per effetto dei nuovi regolamenti inglesi (che ebbero quindi una ricaduta su quelli europei, in particolare sulle competizioni UEFA), cancellò l’immagine grigia dei gradoni di cemento su cui si ammassavano migliaia di tifosi in piedi, facendo spazio a un tappeto di piccole sedute di plastica, un mosaico a cui bisognava dare un colore, un’identità. Il progetto di brandizzazione commerciale della Premier League portò a rendere il campionato un pacchetto esteticamente univoco, con uno stile riconoscibile (e vendibile), passando dal logo del torneo alle grafiche in tv, dal font dei numeri di maglia all’aspetto degli stadi: un’inquadratura tv panoramica dell’interno di uno stadio semivuoto, ad esempio nel pre-partita, poteva fare tutta la differenza del mondo per chi quella partita la stava guardando da chissà quale Nazione all’estero. Era fondamentale avere un’immagine bella, riconoscibile e moderna con cui vendersi al pubblico straniero.
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Le gradinate dei rinnovati stadi inglesi diventarono quindi terreno di sperimentazione grafica, e clamorosamente riconoscibili e caratteristici: sulle enormi tribune di Old Trafford, stadio del Manchester United, comparve il colore rosso su cui si stagliava in bianco il diamante dello sponsor tecnico dell’epoca, Umbro, così come a Highbury, stadio dell’Arsenal, il baffo Nike diventò il simbolo della nuova gradinata nord. Successivamente Stamford Bridge, casa del Chelsea, si colorò immediatamente di blu, il colore sociale del club, contribuendo a dare un rinnovato senso di appartenenza ai propri tifosi. Anche da vuoti questi stadi diventavano mete da visitare, proprio perché si stavano trasformando in cartoline, in simboli. Leggenda narra, infatti, che Roman Abramovič, ex proprietario del club, si fosse innamorato dei Blues proprio sorvolando la città in elicottero e vedendo la doppia scritta “Chelsea” in bianco su entrambi gli anelli di tribuna a contrasto con i seggiolini blu.
Il concetto di “identità estetica”, se così vogliamo chiamarlo, si faceva strada anche in Europa, e l’appena inaugurata Amsterdam ArenA (1996) si mostrava al pubblico con un eccezionale motivo ad arcobaleno che la renderà immediatamente riconoscibile per molti anni. Dell’ArenA bisogna anche citare il recente cambiamento di estetica, dirompente ma coerente con una nuova veste: dopo l’intitolazione dello stadio alla memoria di Johan Cruijff, lo storico motivo arcobaleno delle gradinate è stato sostituito da una colorazione quasi completamente rossa, con pochi toni di bianco, in completo riferimento all’Ajax, club proprietario dello stadio, portando a un totale cambio di identità.
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Per contro, avere dei seggiolini da colorare poteva diventare anche un’occasione per rendere più facile la vita al tifoso. Allo stadio Meazza di Milano, con il nuovo terzo anello nato per i Mondiali di Italia ‘90 e l’implementazione delle sedute in ogni settore, si decise per una soluzione semplice ma molto intuitiva: quattro colori per quattro tribune (Tribuna Rossa – ovest; Tribuna Arancio – est; Tribuna Verde – nord; Tribuna Blu – sud) e il tifoso sapeva immediatamente in che parte dello stadio si sarebbe trovato il suo posto, oltre a farne anche un marchio di appartenenza (Secondo Anello Verde, il settore degli ultras dell’Inter, oppure Terzo Verde e Terzo Blu, i due settori ospiti).
Anche l’uso di scritte o frasi è stato a lungo esplorato, partendo dagli sponsor (come visto nel calcio inglese) e arrivando al nome dei club o allo stemma societario (ci sono alcuni esempi in Francia, fra cui Parco dei Principi di Parigi e Vélodrome di Marsiglia), e infine sfruttandolo con una piccola virgola di propaganda: il “Més Que Un Club” del Barcellona non è solo un motto autocelebrativo da ricordare fra tifosi e giocatori, ma è la frase che accoglie visitatori e squadre all’ingresso in campo, spalmata sull’enorme tribuna dello stadio Camp Nou.
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Ma in questo modo una scritta può anche diventare a sua volta un marchio. Quando servì ricoprire di seggiolini le gradinate del vecchio stadio di Wembley, a inizio anni ‘90, si decise per un colore rosso acceso che, nelle due curve, fosse solcato dalle lettere del nome dello stadio in un tono blu brillante, con un’ombreggiatura bianca. Il font stampatello e leggermente corsivo che ne scaturì, diventò esso stesso marchio dello stadio, scritta riconoscibile e vendibile, e quindi riportata tale e quale nel nuovo impianto (inaugurato nel 2007), che oggi è nuovamente un brillante catino colorato di rosso con quelle due scritte “W E M B L E Y” in blu e bordo bianco nelle due curve. Va poi evidenziata un’interessante particolarità del nuovo Wembley. Nel vecchio stadio, i seggiolini blu in tribuna erano quelli dei settori migliori, ed erano dotati di schienale (un modo per rappresentare la categoria di posto più alta, rispetto ai seggiolini rossi senza schienale, in curva e primo anello). Nel nuovo impianto, invece, gli unici seggiolini di colore diverso da quelli già citati sono nel Royal Box e quindi riservati alla Famiglia Reale, un’altra soluzione che caratterizza la scelta della tonalità con un significato funzionale e simbolico.
In tempi recenti, invece, dopo aver spremuto a fondo sulla semplice colorazione dei settori, l’architettura sta puntando a progetti di stadi che abbiano maggiori spunti dalla geometria, dall’estetica e dall’arte. E la colorazione dei seggiolini può essere un mezzo per esplorare nuovi pattern, più che riempimenti mono o bicolore. Ecco che quindi troviamo gradinate che vengono percepite come una tavolozza unica, partendo dal primo anello e salendo al secondo o al terzo, attraversate da gradienti sfumati fra loro, geometrie ondulate o poligonali che rendono la cavea degli stadi un oggetto unico alla vista.
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Non è un caso che si cerchino significati che spieghino anche queste colorazioni, con scelte che hanno a che fare con la natura circostante o con l’arte locale. O che, ancora, movimentano tutto lo stadio in un caos randomico di colori, messi tutti insieme come negli stadi di Lisbona e di Udine: un modo per evitare che la mancanza di pubblico venga percepita come un vuoto brutto da vedere in tv, certo. Ma tutti noi riconosciamo immediatamente quei due stadi, proprio grazie a una scelta estetica molto efficace, seppur criticabile.
Ci sono però esempi in cui questa modernità estetica non rende merito allo stadio in questione. Con il restyling dello storico Maracanã di Rio de Janeiro avvenuto in occasione dei Mondiali di Brasile 2014, la cavea dell’impianto si è colorata di una sfumatura generale che va dal giallo pallido all’azzurrino. Una novità che secondo molti ha fatto perdere allo stadio brasiliano l’imponenza classica dei suoi gradoni di cemento che amplificavano le dimensioni dell’edificio e la portata di 90-100mila persone che lo riempivano a ogni partita.
D’altronde questi nuovi stadi molto colorati non possono sostituirsi ai tifosi (l’abbiamo visto nelle bucoliche dirette tv delle partite giocate in tempo di lockdown). Possono solo dare un contributo di innovazione estetica e grafica che rafforzi il legame fra i club e gli appassionati, il senso di appartenenza, la voglia di andare a vedere una partita dal vivo e sentirsi parte di luoghi e momenti unici.