Nel 2017 “More Life” di Drake durava 1 ora e 22 minuti, con 22 tracce che oscillavano tra i 3-4 minuti ciascuna e alcune eccezioni che arrivavano addirittura a 6. L’anno dopo, nel 2018, il disco “Daytona” di Pusha T – sotto la direzione artistica di Kanye – sfiorava appena i 21 minuti, mentre ora, nel 2022, i dischi nostrani così come quelli esteri stanno tornando ad avvicinarsi alla buona ora di ascolto. “DONDA” arriva addirittura a 2 ore e dieci, cosa che non avremmo mai detto dalla politica di Kanye.
È inutile dirlo, quando tre anni fa Ye decise di realizzare dischi con un massimo di sei/sette tracce ebbe una grande idea: “Ye” è durato 24 minuti, “Kids See Ghost” gli stessi 24 minuti e “Jesus Is King”, nonostante quattro tracce in più, si è spinto soltanto fino a 27, il tempo era diventato prezioso e i dischi di Kanye erano ormai viaggi di sola andata, al ritorno potevi scegliere se ascoltare qualcos’altro oppure rivivere lo stesso viaggio. Il senso era semplice: poche tracce ma buone, essenziali, niente tempo perso dietro ai brani in forse perché il mercato musicale corre troppo veloce.
Esatto, mercato musicale. Perché quella che al pubblico italiano è sembrata una tendenza legata prettamente a questioni sociali colte dalla brillante mente di Kanye, era però probabilmente qualcosa di diverso, dettato invece dalle piattaforme streaming, Spotify in primis.
Da ciò abbiamo capito, o forse solo riconfermato, una cosa: la musica si adatta al mezzo di diffusione. Quando dovevamo ascoltare la musica in vinile seduti sul divano era un conto, quando dovevamo andare in giro con il ghettoblaster un altro. E ora che ci troviamo ad ascoltare la musica in streaming sulle piattaforme gli aspetti da tenere in considerazione – e che seguono le necessità del pubblico – sono sicuramente altri: rapidità, abbondanza di contenuto e gli algoritmi di Spotify che ti inseriscono nelle playlist – o ti ripropongo nella funzione casuale – solo a determinate condizioni. Ma non è solo questo, si tratta anche di quanto effettivamente pagano queste piattaforme e in che modo, e anche come classifiche – che siano Fimi o Billboard – valutano gli ascolti.
The new chart rules meant there was never any doubt that Drake’s weakest album to date would go platinum.
Factmag
Se nel 2016 “Views” di Drake partiva in quarta per ottenere il platino nonostante fosse considerato uno dei suoi progetti più deboli, un motivo c’è. Anzi due, uno perché è Drake, l’altro perché la sua composizione di ben 20 tracce e 81 minuti di lunghezza hanno sicuramente aiutato il disco a salire di posizione.
Proprio qualche anno prima, infatti, con l’arrivo dello streaming, Billboard aveva cambiato le sue regole di conteggio degli ascolti e aveva sostanzialmente detto che aumentando il numero dei singoli ascoltati all’interno di un disco, aumentava anche la possibilità di farlo salire gradino dopo gradino in classifica. Le case discografiche, quindi, non ci hanno pensato due volte a inserire tracce su tracce all’interno di singoli progetti, così da dare più spinta per farli arrivare alle prime posizioni. “At. Long. Last. ASAP” durava un’ora e 6 minuti e “ALWAYS STRIVE AND PROSPER” DI ASAP Ferg 51 minuti con 19 tracce.
Poi però ci si è messo Spotify. A un certo punto ci si è resi conto che il valore che la piattaforma paga per le riproduzioni dei brani è lo stesso, a prescindere dalla durata. I brani vengono infatti considerati riprodotti dopo circa i 30 secondi di ascolto, e succede quindi che tracce come “All Of the Lights” di Kanye West, che dura ben 5 minuti, riceve lo stesso compenso di un brano come “I Love It”, che arriva appena a due. In sostanza, concentrare le proprie energie su canzoni lunghe non paga, meglio tracce brevi ma in maggior quantità – e magari più dischi all’anno, proprio come fatto da Ye nel 2018. Di fatto, come dimostrato da questo studio nel 2020, la durata media dei brani pubblicati sulle piattaforme si è abbassata dai 3 minuti e 50 a 3 minuti e 30 secondi.
Un metodo di valutazione, questo, che ha modellato il lavoro di artisti internazionali e ha influenzato forse indirettamente anche il mercato italiano, soprattutto quello composto dalle nuove generazioni che si sono affacciate al settore con questi esempi.
In “23 6451” tha Supreme mantiene quasi tutte le sue 21 tracce sotto i tre minuti. Beba fa lo stesso nel suo primo disco, “Crisalide”, e la media della durata dei singoli di ANNA si aggira intorno ai 2 minuti e 40. Ma potremmo dilungarci e prendere come esempio anche Shiva, la DPG o le strofe di Sfera Ebbasta famose per spaccare pur non durando più di 30 secondi. Una dinamica in cui si inserisce sicuramente anche TikTok, in quanto la viralità dei brani – anche lì – è indipendente dalla loro lunghezza e si concentra su piccole porzioni di musica e di testo che spesso estraniano l’ascoltatore dal resto del pezzo. Quante volte vi è successo di iniziare ad ascoltare una canzone pensando di non conoscerla per poi rendervi conto – probabilmente sul ritornello – che l’avete sentita una miriade di volte?
Insomma, se siamo qui a parlarne è perché sono mesi ormai che qualcosa si sta muovendo in un’altra direzione. Il rap italiano post pandemia si sta spostando nuovamente verso dischi incredibilmente lunghi: Marracash, Luchè, Guè, Paky, Fabri Fibra, Noyz. Le (almeno) 17 tracce sembrano essere diventate obbligatorie e i 2 minuti dimenticati, i brani si prolungano tra i testi e le produzioni, a volte talmente tanto da ricevere le critiche del pubblico come successo a Luchè, che ha volutamente messo l’accento sulle basi per lasciar scorrere il disco con calma.
Non possiamo sapere se effettivamente anche questa volta ci siano i numeri di mezzo, ma in realtà sembra a tutti gli effetti una controtendenza e le motivazioni possono essere molteplici. Messa da parte la possibilità di qualche nuova politica delle piattaforme streaming di cui ancora non siamo a conoscenza, sembra che il rap italiano abbia capito il proprio potenziale. Avevamo bisogno di vedere che primo in classifica poteva starci anche il rap, e una volta raggiunto questo obiettivo possiamo tornare a fare musica per il gusto di farla, andando a cercare probabilmente un nuovo rischio proprio come – di solito – piace a chi fa arte. Un nuovo spazio e un nuovo tempo quindi, e con essi una nuova responsabilità, quella di dire qualcosa. Se la trap ha lasciato spazio alle sonorità, gli ultimi dischi – e artisti – hanno messo in conto che c’è qualcosa da dire. E per farlo serve il tempo. La pandemia, infine, ha lasciato accumulata una quantità tale di pensieri, brani e produzioni, che dischi da 25 minuti usciti dopo anni di stop non ne sarebbero proprio valsi la pena. Sarà che finalmente stiamo mettendo da parte la frenesia della musica fast food?