Da un po’ di tempo a questa parte tra gli appassionati di rap italiano sta prendendo forza una voce sempre più insistente. Questa voce è cresciuta nei mesi che hanno preceduto le uscite estive, tanto che Rondo ne ha fatto una bandiera di controtendenza in occasione dell’uscita di Blue Tape. Ma ormai è diventata un ritornello che accompagna ogni release importante. Questa voce si può riassumere in uno slogan di sole quattro parole: sempre gli stessi featuring.
Per quanto le uscite più recenti sembrino contraddire, almeno in parte, questa tendenza – nell’album di Shiva 4 collaborazioni su 8 sono inedite, in quello di Lazza ben 6 su 8 se si esclude il remix di Sport – lo slogan che ritorna più volte nei commenti non è tanto legato all’unicità delle singole collaborazioni, quanto alla quantità e alla ripetività dei nomi coinvolti nei progetti più importanti.
Effettivamente, facendo una retrospettiva sugli album di rap italiano con vocazione mainstream usciti nel 2024, balzano subito all’occhio due trend generali: l’affollamento delle tracklist e il continuo ripetersi di una dozzina di nomi che conosciamo tutti. Del resto, non è un segreto che il continuo alternarsi tra i big dell’industria – alla Guè, Geolier e Sfera – e i nomi più hot – alla Kid Yugi, Simba La Rue, Tony Boy – faccia bene agli streaming di tutti gli attori coinvolti.
Questa “ricetta perfetta” – adottata da etichette, management e artisti – per raggiungere le certificazioni il più velocemente possibile, nasconde alcune insidie che apparentemente sembrano essere sottovalutate dall’industria. Quali? le strofe dei guest risultano spesso ridondanti e poco ispirate, il nome degli artisti in hype rischia di inflazionarsi velocemente, i dischi finiscono per assomigliare sempre di più ad una playlist collaborativa che a un progetto con un sound e un immaginario ben definito.
Quello che però si nasconde dietro al famoso commento “sempre gli stessi featuring” è, in realtà, un problema di percezione. Nel senso che ciò che dal pubblico più appassionato viene percepito come un problema, dal lato dell’industria viene percepito come una soluzione. Infatti, ormai da tempo, il target dei grossi album di rap italiano non è più il pubblico del rap italiano – o meglio, non solo – ma il pubblico generalista. E al pubblico generalista non interessa ascoltare un disco con un concept unitario ma, piuttosto, fare cherry-picking dei brani più adatti da aggiungere alle proprie playlist personali. Questo aspetto raramente viene considerato da chi si lamenta della ripetitività delle collaborazioni. Tanto che il rovescio della medaglia del commento “sempre gli stessi featuring” è rappresentato dal “Ma Geolier perché non c’è? Ma Kid Yugi? Ma Emis Killa?” e via dicendo.
Per rendersene conto basta farsi un giro nella sezione commenti dei post in cui gli artisti annunciano la tracklist del disco, ultimo dei quali Lazza con Locura. Ed ecco che la big picture diventa più chiara e che la spaccatura tra chi vuole di meno e chi vuole di più risulta evidente. Motivo per cui la scelta più conveniente, per la major e l’artista di turno, si traduce in: meglio raggiungere con ogni brano un target diverso piuttosto che accontentare un segmento di pubblico escludendone altri. Perché, parliamoci chiaro, pubblicare un disco con un concept e un immaginario “verticale” significa per forza di cose scontentare qualcuno.
Chi rimane insoddisfatto da questa “soluzione da laboratorio” è la nicchia – ormai non più così nicchia – di appassionati del genere che cerca qualcosa in più di un contentino nella tracklist e che percepisce gli album dei rapper mainstream come una coperta sempre troppo corta.
Se è vero che – come sottolineava Jay-Z in un’intervista al New York Times qualche anno fa – il rap riguarda la possibilità di poter scoprire sempre qualcosa di nuovo, allora, forse, a chi è davvero appassionato rimane ben poco tra le mani. Sono lontani i tempi in cui ci si sconvolgeva di una collaborazione tra Salmo e Sfera Ebbasta, oggi dirsi stupiti da un featuring è merce sempre più rara.
E allora forse è questo il vero slogan: “accontentare tutti ma non accontentare troppo nessuno”, in una sorta di cena di soli antipasti che non soffochi la fame ma che stuzzichi l’appetito di continuo. Finché dura.