Qualche giorno fa, un po’ a sorpresa, dalla Francia sono arrivate le voci dell’acquisizione del Red Star Football Club da parte di un fondo privato di cui si è molto sentito parlare ultimamente, 777 Partners: non deve stupire troppo visto che la società d’investimenti statunitense fondata nel 2015, che nel 2018 aveva già acquistato una piccola quota del Siviglia, prima di puntare lo storico club parigino aveva perfezionato alcune importanti operazioni come l’acquisto del 99% delle quote del Genoa, il 100% dello Standard Liegi e il 70% del Vasco da Gama, entrando prepotentemente nel novero delle grandi società internazionali capaci di possedere più club calcistici contemporaneamente.
🤝 Welcome to 7️⃣7️⃣7️⃣ family, @RedStarFC! pic.twitter.com/fligDrbU3T
— Genoa CFC (@GenoaCFC) April 6, 2022
Forse è sbagliato definirla una moda del momento, visto che nell’ultimo ventennio sulla scena mondiale le cosiddette multi-club ownership si sono sviluppate parecchio, in misure e modalità differenti, riguardando anche il calcio italiano: si è passati da un’attività localmente circoscritta riconducibile ad un solo imprenditore (Luciano Gaucci che controllava Perugia, Catania, Viterbese e Sambenedettese dopo aver posseduto anche delle quote nella Roma), a un piccolo consorzio capace di raggiungere una consolidata dimensione europea (la famiglia Pozzo proprietaria di Udinese, Watford e Granada) fino ai primi esempi di moderni fondi d’investimento, come il britannico ENIC Group, che aveva delle partecipazioni più o meno ampie nel Tottenham, nel Rangers FC, nello Slavia Praga, nell’AEK Atene, nel Basilea e nel Vicenza. Ad anni di distanza i fondi di questo tipo sono come non mai d’attualità in Serie A: in riferimento al Milan si sente quotidianamente parlare dell’Elliott Management Group, che detiene il club milanese dal 2018; l’Atalanta è stata appena acquistata da un’altra società statunitense, Bain Capital; mentre lo Spezia è passato nelle mani di un imprenditore, Robert Platek, già proprietario di SønderjyskE e Casa Pia Atlético Clube.
Ultimamente, però, la presenza di holding e società private che operano nel mondo del calcio è diventata molto più frequente, anche perché si tratta di un fenomeno che riguarda ormai oltre 150 club europei e molti altri in giro per il mondo, e che sta facendo le fortune di alcuni investitori di professione. Probabilmente il network più celebre di questo filone è rappresentato dalla scuderia Red Bull, che oggi possiede ufficialmente le squadre di Lipsia, Salisburgo, New York, Brasil e Bragantino (e in più il piccolo Liefering), tutte affiliate tra di loro e considerate costole dello stesso brand, tanto da condividere alcuni elementi come i colori sociali e il logo. Il gruppo più corposo, invece, capace negli anni di raggiungere una ramificazione capillare quasi in tutto il pianeta, è senza dubbi il City Football Group: creato ad opera di Mansour bin Zayed Al Nahyan per procedere all’acquisto del Manchester City, nel corso degli anni ha inglobato club o parti di essi fino a ricomprenderne ben undici (tra cui anche squadre femminili e alcuni cosiddetti partner club), l’ultimo dei quali il NAC Breda, acquistato pochi giorni fa per meno di 10 milioni di Euro. A parte l’Africa, che potrebbe essere il target del futuro, il CFG ha almeno una squadra in Europa, Asia, Oceania e America.
Ci sono tante motivazioni per cui stiamo assistendo alla compravendita di quote e talvolta di intere società, e all’espansione di multinazionali sempre più veloci nel lanciarsi in questo genere di investimenti strategici: arricchire il proprio portfolio, anche quando in esso figurano altre attività nel mondo dello sport o business di tutt’altro genere, tramite l’acquisizione di nuovi club è in primis una strategia per aumentare i guadagni complessivi (e il Manchester City in questo modo è riuscito a superare per la prima volta i rivali del Manchester United in termini di ricavi annuali) ma anche, indirettamente, un modo per esportare e sviluppare il proprio brand all’interno di mercati nuovi e differenti. Talvolta i benefici sono anche di carattere tecnico-sportivo e gestionale: attraverso la rete di club “amici” è più semplice instaurare metodi di allenamento comuni, condividere conoscenze e costituire un flusso maggiore di giovani calciatori che, nel caso di club subordinati tra di loro, possono essere controllati all’interno dello stesso sistema per far comodo alla squadra di punta. Partendo dalla crescita dei singoli per puntare a quella dell’intera multiproprietà.
La diffusione di queste sinergie, che in certi casi ricordano il modello del franchising, non ha però solamente risvolti positivi: se molti piccoli club possono ringraziare le grandi holding per essere stati salvati da un fallimento o per aver scalato rapidamente le categorie, molti altri hanno accusato una perdita di identità che ha gravemente inclinato il rapporto con i tifosi più conservatori, più intenzionati a mantenere una certa reputazione che ad ottenere certi risultati. L’ingresso del Club Atlético Torque all’interno del City Football Group, ad, esempio, ha garantito al piccolo club uruguaiano la promozione in massima serie e una storica qualificazione alla Copa Sudamericana, ma è costato un radicale cambio di nome in Montevideo City Torque che ne ha inevitabilmente modificato la storia.
Di recente il caso dei club satellite ha anche creato un grande problema di regolarità all’interno di alcune competizioni e infatti è servito l’intervento degli organi supremi per normalizzarlo: in Italia si è discusso molto di queste situazioni a maggior ragione dopo la confusione causata dalla promozione della Salernitana in Serie A la scorsa estate e, per evitare che si ripetano simili casi in futuro (Napoli e Bari sono di proprietà di Aurelio De Laurentiis, Hellas Verona e Mantova di Maurizio Setti) si è giunti a vietare che uno stesso proprietario potesse guidare due squadre all’interno dello stesso campionato, con l’obbligo di venderne una delle due entro la stagione 2024/2025.