I gelati confezionati sono davvero diventati un lusso?

Sembra trascorsa un’eternità da quando bastavano solamente pochi spicci per poter permettersi un gelato confezionato, eppure alle nostre spalle ci siamo lasciati “solamente” 20 anni. Se di fatti prendiamo in considerazione i prodotti Algida (non ce ne vogliano competitor del calibro di Motta e Sammontana), possiamo osservare come dall’estate del 2002 (la prima dall’introduzione dell’Euro nel nostro Paese) al 2023 i prezzi dei gelati siano all’incirca triplicati: nel 2003 il costo di listino dello storico Calippo era di €0.80 (contro gli €2.40 medi del giorno d’oggi), mentre il democraticissimo Fior di fragola è schizzato da €0.55 a €1.80. A darci una visione panoramica di come l’inflazione si manifesti con l’incremento del prezzo di questi prodotti, ci ha pensato l’account Twitter Aegis Crypto con il seguente post.

Un altro aspetto che è stato messo in evidenza dall’account, così come – seppur usando termini di sicuro nazionalpopolari – dalle molteplici persone in villeggiatura in qualche località marittima che quotidianamente scelgono di saziare la propria fame con un gelato Algida, riguarda la cosiddetta sgrammatura, “shrinkflation” in inglese. In parole povere, in casa Algida non solo sono incrementati i prezzi, sono state anche diminuite le quantità, in grammi, dei prodotti messi in vendita: i Magnum “di oggi”, più nello specifico quelli “speciali”, non gli OG (come ad esempio il classico, quello con le mandorle o quello ricoperto da cioccolata bianca) pesano 20 grammi in meno a quelli del 2002. I gelati sono più piccoli, e non è un caso se stiamo testimoniando alla scomparsa di frasi del tipo “per cena prenderò un bel Magnum”.

E c’è da dire che i gelati confezionati, quelli per antonomasia “da stabilimento balneare”, protagonisti di miliardi di spot pubblicitari e talvolta di parodie di essi, eterni fautori e collaboratori del raccontatissimo sogno idealizzato dell’estate italiana (che, in tutta onestà, chissà se esiste ancora) dimostrano di essere ancora circondati da una sorta di aura di sacralità e intoccabilità. Sì che si è trattato di un aumento più o meno proporzionale di tutti i gelati, ma se quest’ultimo ha generato un clamore diverso rispetto a un pacco di pasta di Gragnano o a un etto di prosciutto cotto è anche perché – culturalmente – i gelati, in Italia, simboleggiano molto di più di quanto si possa immaginare.

Il Cremino ha per anni incarnato il significato dello snack frugale il miglior modo per godere di refrigerio nelle afose giornate estive: d’altronde bastavano solamente 55 centesimi per acquistarlo, simbolo di una stratificazione sociale presente all’interno degli stabilimenti balneari. E certo. Perché tra i primi anni del 2010 ci sarà spesso capitato di guardare con occhi pieni di invidia colui che sorseggiava un buon Café Zero, il gelato/bevanda targato Algida contraddistinto da microcristalli di ghiaccio: una goduria per il palato, un po’ meno il portafogli. Il Café Zero è stato il prodotto che più metteva in evidenza la spending power di un individuo, immaginate veder sedere il proprio compagno di merende con quel grande bibitone al vostro fianco mentre voi mangiate un umile Cremino, il gelato più socialista di sempre. È un po’ come vedere arrivare in Ferrari il vostro rivale in amore al party della vostra città, e scorgerlo parcheggiare la sua auto di fianco alla vostra Fiat Panda. Oggi anche i gelati che prima erano più accessibili costano un paio d’euro, e questa lotta di classe non è più tanto accentuata, né divertente.