Molti dei miei ricordi d’infanzia più belli sono legati al racconto di barzellette. Quelle di Pierino ripetute tra compagni di classe alle elementari, quelle che leggevo nelle ultime pagine di Topolino, mio padre che le intona con cadenza emiliana e ogni volta non riesce ad arrivare alla fine senza ridere da solo, lo zio più audace che racconta quelle sconce con l’intento di far ridacchiare noi bambini, certo, ma soprattutto di provocare una pioggia di sguardi avvelenati da parte di mamma e zie.
Verso la fine degli anni Novanta le sfide di barzellette si erano impadronite delle nostre classi, erano le nostre rap battle, lo show che mettevamo in piedi durante l’intervallo o sull’ennesimo pullman diretto verso il Museo Egizio di Torino. Raccontare barzellette era un atto performativo democratico, poco importava se prima di quel momento eri il secchione o il bullo della classe. Una volta salito sul ring della risata, la puzza di sfiga attaccata alla tua tuta Upim o quell’aura di violenza tipica del bocciato si disperdevano per lasciare spazio a una sola domanda: riuscirai a farmi ridere?
L’iter era lo stesso per tutti i partecipanti alla sfida: dovevi scegliere la barzelletta più brillante che avessi mai sentito ed essere pronto a dare tutto te stesso per raccontarla. Da una parte c’erano i maestri della barzelletta breve e feroce come una coltellata, dall’altra i professori di quella lunga e teatrale che veniva raccontata utilizzando corpo, mani ed espressioni, questi ultimi degni eredi della scuola di Gigi Proietti.
In quegli anni così formativi abbiamo imparato il valore dell’essere single attraverso le barzellette sulla suocera, il ruolo degli stereotipi a suon di “Ci sono un inglese, un francese e un italiano…” e che i carabinieri sono solo dei sempliciotti. In verità, durante l’adolescenza ho covato dentro di me l’idea complottista che siano stati gli stessi carabinieri a diffondere tutte quelle barzellette dove vengono ritratti come incapaci e ridicoli. Un’azione di difesa per nascondere verità più scomode e violente.
Se le gare di barzellette erano le nostre rap battle, allora molti di voi si chiederanno chi fossero i nostri rapper. Parliamo di una generazione di eroi che ha saputo raccontare il Bel Paese, da nord a sud, con uno sguardo quasi Pasoliniano, senza mai omettere pruriti e debolezze del popolo italiano: i barzellettieri di “La sai l’ultima?”, lo show comico di Canale 5 lanciato nel 1992. Se chiudo gli occhi riesco ancora a evocare l’accento romano di un giovane Enrico Brignano, le espressioni comicamente languide di Valentina Persia o le partecipazioni speciali di Gino Bramieri (aka Nonno Felice), maestro della barzelletta lunga e raffinata.
Con l’arrivo di internet nelle nostre case (e della pubertà nel nostro corpo) abbiamo iniziato a cercare barzellette sempre più cattive. Non ci bastava più ridere, no, noi volevamo sghignazzare in maniera cinica dei grandi orrori della vita come la morte, la guerra, le malattie. Sui forum cercavamo battute sempre più dissacranti solo per raccontarle agli amici più intimi, quei pochi eletti che comprendevano il nostro senso dell’umorismo che – ovviamente – ognuno di noi riteneva unico, avvincente, a tratti malvagio.
Se l’uso privato della barzelletta si andava sempre più a trasformare in un’arte oscura, l’uso pubblico colpiva i personaggi famosi, a volte rovinandoli altre volte elevandoli a icone. Silvio Berlusconi era un vero artista della barzelletta, ovunque si presentasse – tv, comizi locali, cene – portava sempre con sé una storiella, come la chiamava lui.
Una delle sue armi retoriche preferite, utilizzata per colpire bonariamente sé stesso o per schernire gli avversari politici. Proprio in uno dei suoi primi video TikTok, il Cavaliere consiglia alla Gen Z di «saperne almeno una decina, perché la barzelletta è terapeutica, elimina le distanze tra uno e l’altro e pulisce il cervello». Tutto questo prima di raccontarne una sulla propria morte. All’apice della sua carriera e poco prima di vincere il Mondiale del 2006, Francesco Totti si lanciava nella pubblicazione di libri che raccoglievano le tantissime barzellette su di lui.
Il re di Roma, il ragazzo più ammirato e invidiato d’Italia, colui che ha reso irresistibile l’uso del cerchietto sugli uomini, aveva capito che il fenomeno non solo era inarrestabile ma anche redditizio (c’è da dire che parte dei guadagni dei libri di barzellette sul capitano romanista sono stati devoluti in beneficenza).
Ho passato un intero pomeriggio su YouTube a guardare la trasposizione video di quelle battute, piccole e magiche clip con Alessandro Del Piero, Bobo Vieri e Antonio Cassano nel ruolo di spalle de Er Pupone, felice di ridere di sé stesso.
Il set povero in stile “posto sincero”, l’evidente grande amicizia tra i campioni, Bobo che alla fine di ogni battuta lancia la testa indietro in una risata profonda, i capelli lunghi con la riga in mezzo di Cassano, le risate trattenute per non battere un nuovo ciak… Mi sembra di guardare i bloopers di una vecchia serie TV.
Ho provato un senso nostalgico di eternità, ho davvero creduto che le seguenti cose fossero immortali: l’amore tra Ilary e Francesco e la rilevanza delle barzellette.
Dissolte, sgretolate entrambe.
Quando abbiamo smesso di amare le barzellette? Me lo sono chiesta la prima volta quando, per uno strano scherzo del destino, mi sono ritrovata proprio a dover suggerire dei nomi per l’edizione del 2019 di “La sai l’ultima?”. Ho setacciato in lungo e in largo le praterie del web in cerca di barzellettieri all’altezza dei miei ricordi, ma tutto quello che ho trovato è stata una manciata di utenti con un grande ego, un pessimo umorismo e un troppo facile accesso al mondo di YouTube. È lì che ho capito che le barzellette ormai erano materiale cringe: nel 2023 guardare qualcuno che cerca di intrattenerti con delle barzellette è imbarazzante quanto postare un boomerang su Instagram.
Dal momento in cui abbiamo spostato la nostra vita sui social network, Facebook in primis, abbiamo iniziato a scrivere anche quello che ci faceva ridere. E abbiamo avuto paura.
Al secondo round di commenti del genere «scusa, ma a me non fa proprio ridere» lasciati da un amico visto quell’unica volta al mare otto anni prima o da un ex compagno di catechismo, ci siamo accorti che non potevamo più affidarci solo alla battuta scritta. Troppo soggetta a fraintendimenti, andava rafforzata con qualcosa che svelasse che il nostro intento era esclusivamente quello di risultare interessanti, non spregevoli. Ecco chi ha davvero ucciso le barzellette: i meme.
Una volta usciti dai forum per nerd, hanno pervaso le nostre vite digitali facendosi largo tra le bacheche di Facebook e di tutti i suoi figliastri. Un mix di immagini ferme o in movimento che abbiamo aggiunto alla retorica di tutti i giorni per esprimere al meglio la complessità del nostro spettro emotivo, che fino a dieci anni fa era riassumibile in tre grandi stati d’animo “Sto ridendo moltissimo”, “Sono triste” e “Sono ironico”.
Pochi ma buoni, i primi grandi meme sono arrivati a noi scolpiti nella pietra: la faccia distorta di Forever Alone, il video di Keyboard Cat o quello della marmotta che si gira con sguardo drammatico, sono stati la risposta a qualsiasi domanda per mesi. Ma che dico… per anni! Quando ne spuntava fuori uno nuovo, come Pepe The Frog o il “vecchio inquietante delle foto stock”, questi si aggiungevano alla compagnia come perle al nostro rosario. Dal momento in cui abbiamo avuto uno spazio per sfogarci i protagonisti delle barzellette siamo diventati noi. I tweet autoironici su quanto è misera la vita, i meme “expectation vs reality” hanno preso il posto delle battute su quel disgraziato di Pierino che – mi piace pensare – ha finalmente avuto il tempo e lo spazio per crescere, a differenza nostra. È colpa nostra se le barzellette sono morte, anzi, è colpa della crisi economica del 2008 e degli hipster troppo ironici.
I grandi meme preistorici hanno gettato le basi per l’uso quotidiano che ne facciamo oggi, con la differenza che per una strana anomalia della teoria evolutiva, di questi tempi, più qualcosa è forte e diventa virale, più avrà un’esistenza breve.
Se durante gli anni Dieci tutti abbiamo postato la stessa troll face sotto gli status di amici, oggi sappiamo che, una volta partorito, quel meme verrà maneggiato all’infinito da milioni di utenti finendo per stancarci nell’arco di 24 ore o – peggio ancora – per diventare intoccabile una volta utilizzato da un’azienda per promuovere un loro servizio.
Ecco perché tormentoni di poche settimane fa ci suonano vecchi di decenni.
Se tutto diventa vecchio e uncool nella manciata di poche ore, come fa uno stile di umorismo a sopravvivere? Forse il decesso definitivo delle barzellette va imputato proprio alla differenza di umorismo tra millennial e zoomer?
Un utente di Reddit suggerisce che «l’humour dei millennial è incentrato sull’odiare sé stessi, mentre la Gen Z scherza su prendere acidi e volare nel piano astrale». Non ha tutti i torti. Se l’umorismo dei millennial si fonda sulla difficoltà di realizzare delle aspettative sociali che oggi appaiono impossibili da raggiungere, quello degli zoomer svela l’assurdità di queste aspettative. Come una palla di pasta per la pizza, quell’umorismo sotto le mani dei nativi digitali viene stracciato e tirato in una lunga lingua sottile facile da bucare. Quello che ci rimane in mano poteva essere una pizza, invece, è un corpo appiccicoso piuttosto brutto da guardare, e questo ci fa ridere. Se vivere non è solo difficile ma addirittura assurdo, se la vita non ha senso, allora perché dovrebbe averlo l’umorismo? Ci hanno provato i vecchi barzellettieri a riproporsi su TikTok, ma il risultato è un contenuto che crea impazienza invece che curiosità: chi ha tempo di rimanere a guardare come finisce la storia di Pierino quando posso vedere un Pierino di oggi cimentarsi nella stessa sfida live? In questo contesto di video di personaggi dei cartoni animati che esplodono, montaggi di persone che singhiozzano mentre guardano un drone atterrare e persone normali che diventano il freak del giorno, come può la costruzione precisa delle barzellette resistere?
“Un uomo entra in un caffè e fa splash” oggi potrebbe far ridere solo se recitata con voce pitchata e decontestualizzata all’interno di un video di un incidente stradale. Tempi assurdi richiedono un umorismo assurdo.