Secondo quanto riportato da diversi media di settore, Hansi Flick, il nuovo allenatore del Barcellona, ha sviluppato una nuova regola relativa al dress code nel giorno delle partite: ogni giocatore dovrà infatti recarsi allo stadio indossando categoricamente il medesimo prodotto lifestyle della squadra. Nessun capo di abbigliamento personale, nessun focus sullo stile, ma una ripetizione di t-shirt e felpe non per forza formali, ma identiche per tutti come se fosse un’uniforme collettiva.
La scelta di Flick fa particolarmente discutere dal momento che arriva dall’allenatore del Barcellona, l’unico club che ha istituito ufficialmente i “tunnel fits” di stampo NBA. Questi sono scatti fotografici che vengono fatti ai calciatori al loro arrivo al Camp Nou (o agli stadi delle squadre rivali) in modo da valorizzare la loro estetica personale. In questo contesto, molta rilevanza l’ha presa Jules Koundé, il calciatore francese ha infatti guadagnato un ruolo di primo livello nel mondo della moda, diventando anche un testimonial della collaborazione tra Moncler e adidas, oltre ad essere presenza fissa nelle prime file delle sfilate della fashion week parigina. La fama raggiunta da Koundé come fashion icon dimostra la forza di questa attività: nessuno nega che il calciatore francese avrebbe comunque raggiunto un simile status anche solo con le proprie forze, ma il progetto “tunnel fits” del Barcellona ha sicuramente velocizzato il processo, oltre che portare tutti gli appassionati di moda nel mondo sportivo ad applaudire per aver finalmente sdoganato il legame tra sportivi e fashion, cosa che oltreoceano vediamo spesso. Quando, nelle righe precedenti, abbiamo parlato di “stampo NBA”, non lo abbiamo fatto a caso. Dopo che la lega cestistica più famosa al mondo ha obbligato per anni i giocatori a presentarsi in completo, questa ha poi aperto le braccia alla moda, creando indirettamente i tunnel fits ripresi anche dal club catalano che sono diventati negli anni luogo in cui mostrare scarpe e collaborazioni esclusive, outfit particolarmente eccentrici e persino messaggi politici attraverso i capi di abbigliamento.
Nel vedere il clamoroso successo che la NBA aveva avuto, portando sia a collaborazioni con rilevanti brand di abbigliamento ma soprattutto avvicinando un numero spropositato di nuovi appassionati provenienti dal mondo del fashion che mai avevano seguito una partita NBA, molte sono le leghe sportive e le squadre che hanno provato a imitare la federazione cestistica americana, in primis la conterranea NFL. Il calcio, essendo meno omogeneo dei gruppi sportivi americani, lascia più autonomia di gestione alle singole squadre, motivo per cui il Barcellona fu la prima a guadagnarsi questa medaglia al valore. Nella prima parte del 2023 i catalani hanno iniziato a dare rilevanza a questo aspetto sui propri social media, sfruttando anche la brevissima permanenza in squadra di Héctor Bellerín che li ha resi, con l’aiuto del già citato Koundé, il club più fashion al mondo.
Ora, a distanza di un anno e mezzo, il Barcellona ha detto stop. Non per motivi di branding, non per sovrastrutture particolari, non per accordi commerciali, ma semplicemente per decisione di Hansi Flick, il nuovo allenatore, già in passato alla guida del Bayern Monaco e della Nazionale Tedesca. Flick ha detto di volersi concentrare solo ed esclusivamente sul campo, e per questo motivo ha detto ai giocatori di vestirsi con elementi predefiniti della divisa sociale quali t-shirt, polo e shorts. L’opinione di Flick non è così rara: fu Siniša Mihajlović a dirci nel 2021 di preferire quando i giocatori arrivano alla partita vestiti uguali per dare idea di un gruppo compatto. Eppure negli ultimi anni abbiamo sentito sempre più giocatori dirsi contenti per la possibilità di mostrare maggiormente il proprio lato estetico, essendo un modo di esprimere sé stessi in un contesto, quello del calcio, che storicamente costringeva gli atleti a un angolo esclusivamente legato alla performance sportiva.
Ma la domanda è: usare i propri outfit è davvero un problema per il calcio giocato? Il rischio è che questa retorica possa continuare a instillare nella testa dell’appassionato generalista il fatto che la moda sia solo un ostacolo all’attenzione dello sportivo, come se un atleta non possa concentrarsi su nient’altro se non la performance sportiva.