La recente release delle Trophy Room x Air Jordan 1 ha riportato alla luce una pratica dubbia, ma presente dall’alba dei tempi, all’interno dello sneaker game: il backdoor. Prima di districarci in questo delicato tema, cerchiamo però di ripercorrere quanto accaduto durante la release organizzata dal negozio di Orlando.
Rivelate con diversi mesi di anticipo, le Trophy Room x Air Jordan 1 hanno debuttato ufficialmente mercoledì 10 febbraio. La sneaker, dato lo schema cromatico simile a quello delle Air Jordan 1 “Chicago” e le limitatissime quantità prodotte – si stima che siano state realizzate solo 12mila paia -, non è certamente passata inosservata ai radar di molti appassionati e altrettanti reseller, scatenando il caos.
A creare ulteriore malcontento, è stato però un mix di diversi fattori, uno su tutti il fatto che il negozio gestito da Marcus Jordan, figlio di Michael Jordan, sia stato accusato di aver venduto in backdoor la maggior parte del, già limitato, stock a rivenditori del calibro di Benjamin Kickz, plug della scena rap americana. Ad avvalorare quelle che inizialmente potrebbero essere assunzioni fatte da sneakerhead frustrati per l’ennesima “L”, sono tweet sarcastici e immagini che lasciano poco spazio all’immaginazione.
Al di là di quelli che sono i racconti legati a questa release, non ancora smentiti o confermati da Marcus Jordan stesso, e assodato che al momento non esista alcun modo per porre fine a questa pratica, ci è sorta una domanda: fare backdoor è davvero così scorretto?
Come prima cosa è lecito, secondo noi, fare una distinzione tra: backdoor in sé e per sé e favoritismo clientelare. Con il primo termine si intende il processo mediante il quale il prodotto, la scarpa in questo caso, viene venduto sotto banco a prezzi maggiorati a reseller. Con favoritismo clientelare, invece, definiamo il gesto di un negoziante nel tenere da parte una sneaker a un proprio cliente affezionato, vendendo la scarpa al prezzo di retail.
Nel primo caso, il negozio tende a vendere, rialzando il prezzo al dettaglio, la stragrande maggioranza del proprio stock a una sola persona (o più di una). Se da un lato questa mossa porta benefici economici sia allo store che alla persona che si accaparra lo stock, dall’altro modifica, in negativo, il pensiero che la community può avere del negozio. È quindi un gioco che vale la candela? Coscienti del fatto che l’affluenza di pubblico in concomitanza con la data di uscita di una release hype sia sicuramente superiore alla media, riteniamo che il negozio possa trovare metodi alternativi per capitalizzare in egual modo senza compromettere la fiducia dei propri clienti.
Nel caso invece del favoritismo clientelare per come l’abbiamo definito noi, il negoziante tende a riservare a uno o più clienti fidati la sneaker. Anche in questa occasione, però, sorgono numerose varianti da tenere in considerazione prima di etichettare il tutto come “accettabile”. Come viene definito un cliente fidato? È la persona che spende con più frequenza nel negozio o chi ha supportato l’attività sin dall’inizio? È il numero di ordini fatti in un mese? O la persona più genuinamente interessata a ciò che sta comprando? Non abbiamo una risposta definitiva, ma riteniamo giusto che sia il negoziante a scegliere a chi, e in che modo, vada riservato un paio di scarpe, senza andare a intaccare in maniera determinante l’intero stock a disposizione.
Il backdoor, quindi, è sleale?
In entrambe le situazioni descritte la pratica non è vista di buon occhio, anche se il fine fa la differenza: in un caso sono solo i soldi, nell’altro ci va di mezzo il rapporto negozio-cliente.
Così come la produzione di fake, anche il backdoor è un argomento tanto delicato quanto irrisolvibile per le grandi aziende produttrici di sneakers, che sembrerebbero essere del tutto disinteressate all’argomento. L’indifferenza mostrata da queste ultime ci dovrebbe dunque portare alla mera accettazione del tutto, in quanto parte inscindibile e intrinseca dello sneaker game. D’altronde, don’t hate the player, hate the game.