“Chi stai indossando?”. È la domanda più inflazionata sui red carpet di oggi, a significare “Quale brand ti ha vestito?”. Eppure c’è stato un tempo, di cui ci siamo in gran parte dimenticati, in cui tale domanda non si poneva: nel 1929, anno della prima edizione degli Academy Awards, Janet Gaynor, vincitrice dell’Oscar come miglior attrice, indossava un abito anonimo, acquistato in una boutique di sua scelta, completato da un colletto alla Peter Pan che pareva uscito da un negozio per bambini. Nel 1937 Luise Rainer ricevette il suo Oscar in quella che il New York Times definì una sorta di camicia da notte, impersonale e priva di ogni logo, mentre nel 1958 Joanne Woodward cucì da sé il proprio abito, su un piano di lavoro nel suo fienile nel Connecticut. Il costo del tessuto satin utilizzato da Woodward per il suo ensemble da Oscar? $100. Potremmo dire “erano altri tempi”, per quanto già allora vi era chi fiutò aria di business. Un aneddoto riportato dalla scrittrice di moda Bronwyn Cosgrave in Made for Each Other: Fashion and the Academy Awards (2007) è particolarmente calzante: nel 1930 Mary Pickford, premio Oscar per il suo ruolo in Coquette, sfruttò la fama che le era derivata per ottenere vistosi sconti su abiti firmati nelle boutique griffate di Parigi. Fermata alla dogana dell’aeroporto per via del gran numero di merci con cui si presentò, dovette pagare una sovrattassa per portare il ricco bottino negli Stati Uniti.
Aneddoti a parte, fino agli anni Sessanta l’uso più comune rimase quello di scegliere da sé i propri abiti o, nel caso di attrici e attori, affidarsi ai costumisti degli studi cinematografici. E tuttavia, un momentum sintomatico di quanto avverrà più tardi si ebbe già negli anni Cinquanta, quando Audrey Hepburn ed Elizabeth Taylor decisero di rivolgersi a due case di moda – rispettivamente Givenchy e Dior – per definire la propria immagine. Nel 1953, quando Audrey Hepburn salì sul palco degli Oscar per la consegna del premio di Miglior Attrice Protagonista in Vacanze Romane, sancì gli esordi di un sodalizio tra moda e grandi eventi, pur in assenza di red carpet. Lo fece indossando un abito couture di Givenchy, bianco, allacciato in vita e ornato di dettagli floreali. Seguirono gli anni, i primi red carpet – dal 1961, quando venne introdotto l’uso di far sfilare le star su un tappeto rosso all’ingresso della sala ricevimenti degli Academy Awards – e, immancabili, le firme degli stilisti sugli abiti.
Ma è negli anni Novanta che il modello di collaborazione tra stilisti e star-system si fa sistematico. A definirlo è Giorgio Armani: gli Oscar del 1990 vennero ribattezzati dalle testate di quell’anno “Armani Awards”. Fra le star a indossare la sua firma vi erano Robert De Niro, Steven Spielberg, Jodie Foster, Denzel Washington e Tom Cruise. Nello stesso anno, Julia Roberts ritirò ai Golden Globe il premio come Miglior Attrice Non Protagonista in Fiori d’Acciaio (1990). Indossava un completo grigio Armani, o meglio, di quel “greige”, crasi tra grigio e beige, che è tipico del minimalismo cromatico dello stilista. Poi, a completare un ensemble marcatamente sovradimensionato, una cravatta e lunghi riccioli.
Nel descrivere l’innestarsi di un’economia dei red carpet a partire dagli anni Novanta, la critica di moda del New York Times Vanessa Friedman racconta di inizi “innocenti”, al limite del casuale. La necessità di porre a sistema la scelta dei look da red carpet delle celebrities sorge, a sua detta, come risultato delle classifiche di meglio e peggio vestite. Tra queste, l’esempio più citato è quello di Demi Moore, presentatasi sul tappeto rosso degli Oscar del 1989 con una mantella nera e un paio di pantaloni aderenti in spandex. “Un risultato disastroso”, ha sentenziato la critica Dana Thomas in Deluxe: How Luxury Lost Its Luster (2007). È così che le star iniziano a cercare negli stilisti un porto sicuro di consigli. Il primo a rendersi conto del potenziale ritorno di un’asse moda-Hollywood fu, per l’appunto, Giorgio Armani, che costruì da sé quell’asse.
Il cambio di passo segnato da Armani, ben riassunto nell’affermazione di Anna Wintour secondo cui egli avrebbe dato alle star “un modo di apparire moderno”, diventa presto un’occorrenza, una necessità sostenuta da ambo le parti. Dall’una, le celebrities, che si vedono rimosse dall’impiccio della ricerca dell’abito, dall’altra le case di moda, il cui guadagno si esprime in termini di ritorno di immagine e di vendite. Il sogno, presentato in formato abito sui red carpet – nuove passerelle assimilabili ad haute couture fuori stagione – si ritrova, in versione meno sofisticata, nelle boutique delle stesse Maison, dove chi ha apprezzato l’immagine proposta sul tappeto rosso andrà a rifare il proprio armadio. Si costituisce così un circolo virtuoso tra star system, case di moda e compratori, fondato su un singolo prodotto creativo: l’abito perfetto. Ed ecco spiegato, in breve, come è nato il business dei red carpet, laddove i red carpet in sé esistevano già negli anni Sessanta, ma senza un business così strutturato.
“È difficile individuare quando il tappeto rosso è diventato un’economia a sé stante – da qualche parte alla fine del Ventesimo secolo – ma è stato uno strumento di marketing attentamente coltivato da generazioni ormai, costruito su un’illusione a cui tutti crediamo: la pretesa in gran parte costruita che le attrici (e gli attori) scelgano i loro stessi abiti e che quello che vediamo sia una pura espressione del loro stile personale”. Così Vanessa Friedman esprime il proprio disappunto verso la mancata narrazione che si fa del business dei red carpet. L’articolo, del 2018, si intitola significativamente, Il red carpet è esso stesso la sua economia, laddove, nella ridondanza dei termini, Friedman mette luce su un’equazione ben precisa: un marchio globale, o un gruppo di marchi, creano, o comprano, un look, sulla base di relazioni contrattuali negoziate da manager o agenti. Talvolta, l’equazione prevede anche un altro addendo, lo stylist, pagato sia dall’attore che dal brand, per comporre il look. Ma tale composizione avviene sempre sulla base di linee guida precise e all’interno di una selezione vestimentaria molto specifica, quanto ristretta.
In termini numerici, le maison stanziano un budget, che, come riportato su Fashion Network da Karen Duffy, co-fondatrice dell’agenzia di branding Wilyfoxx, vede al suo interno diverse voci: produzione dell’abito e dei gioielli ($20.000-150.000), spedizione e prova del look in showroom ($13.000-29.000), team di supporto alla preparazione ($10.000-40.000), promozione e pubblicità ($10.000-50.000), spese legali e contratti ($4.000-10.000), dove le cifre inferiori fanno riferimento ai piccoli brand, mentre quelle maggiori alle grandi maison – Chanel, Prada, Dior per citarne alcune.
Alle spese per la realizzazione e messa in opera dell’abito, si aggiungono poi i compensi a celebrities e stylist: nel 2015 Jessica Paster, stylist apprezzata nel circolo d’oro di Hollywood, affermò di ricevere fra i 30.000 e i 50.000 dollari, mentre le star ricevevano tra i 100.000 e i 250.000 dollari. Ad evento, dava per sottinteso. Più spesso, si tratta di contratti a lungo termine, che uniscono il volto della star al logo che le sceglie. Notoriamente, il contratto che nel 2014 legò Jennifer Lawrence a Dior per tre anni prevedeva un compenso di 15 milioni di dollari per l’attrice. Il dato, tra i primi di una lunga serie ad essere trapelati dagli uffici delle case di moda, trova validità ancora oggi, con cifre a sei zeri all’ordine del giorno per contratti pluriennali.
Dati i termini dell’equazione, il risultato è quello che in gergo si definisce Media Impact Value™ (MIV®), uno standard di misurazione brevettato dalla piattaforma di raccolta dati e analisi Launchmetrics per consentire ai brand di assegnare un valore monetario ad ogni post, articolo o altra menzione dedicata, misurandone l’impatto sulle performance del brand stesso. Fra i red carpet più recenti, agli Emmy Awards 2023 Jenna Ortega vestita da Dior ha ottenuto $5.6 milioni in MIV, mentre Pedro Pascal in Valentino $1.6 milioni. Ai Critics’ Choice Awards 2024 Margot Robbie vestita da Balmain ha guadagnato $2.5 milioni, mentre Charles Melton in Valentino $751.000. In conversazione con Jessica Beresford del Financial Times, Alison Bringé, Chief Marketing Officer di Launchmetrics, ha sottolineato come il fine primario dei red carpet sia, per le maison, quello di aprire conversazioni e suscitare impressioni, traducibili in acquisti da parte degli spettatori da casa.
Tra i casi più recenti si cita il press tour di Challengers (2024), i cui tappeti rossi percorsi dalla protagonista Zendaya avrebbero generato al brand Loewe un ritorno di $8.8 milioni in termini di impatto mediatico. E in sole quattro settimane. All’indomani del press tour, forte di un’aumentata riconoscibilità sul mercato, Loewe ha lanciato la collezione di T-shirt e felpe “I TOLD YA”, già indossata da Zendaya nella pellicola e dal cast durante la sua promozione. 250 euro per una maglietta bianca o grigia con scritta serigrafata e 520 per una felpa, sempre con scritta serigrafata: i capi sono già virali, mentre i ritorni delle vendite restituiranno, moltiplicati, gli investimenti di Loewe nel press tour.
Dagli anni Novanta ad oggi, un momento di stallo nella neo-nata economia dei red carpet si è avuta nel 2022 quando, all’indomani della pandemia, e forse anche per via di quest’ultima, qualcosa è sembrato incepparsi. La crescita dell’online e delle piattaforme social ha generato nuovi terreni di investimento, portando ad una frammentazione del budget dei brand. Tutto quanto era off-line, red carpet compresi, sembrava perdere, in parte, la sua allure. Sempre nel 2022, l’annuale articolo di BoF dedicato agli Oscar si chiedeva se il tappeto rosso non avesse raggiunto un punto di saturazione e se, di fronte alla mancata crescita dei brand post-pandemia, gli abiti delle celebrities fossero il “punto migliore” in cui tagliare.
E tuttavia, il 2024 pare essere, nuovamente, l’anno dei red carpet. Dati alla mano, tra gennaio e aprile si è registrato un +12,4% in ricerche relative al termine ‘red carpet’ rispetto al 2023 (fonte: Brandwatch). A traghettare gli investimenti dei marchi di lusso sono i dati di ricerca online, in cui si palesa un rinnovato interesse degli utenti verso la moda da tappeto rosso. Nel cuneo di questo ritorno a così stretto giro, si ritrovano comunque i segni di un cambiamento, di un nuovo modo di indossare l’abito. Andando oltre il fatto estetico, l’abito si fa sempre più portatore di una storia, personale o collettiva, politica o eco–critica. In un generale movimento di alfabetizzazione della moda, gli ensemble d’archivio hanno raggiunto numeri sempre più importanti, facendosi a loro volta strumento di educazione e promozione – la tuta robotica della collezione Maschinenmensch di Mugler (haute couture autunno/inverno 1995) avrebbe generato alla maison $13.3 milioni in MIV. Gli Oscar 2024 si sono fatti palco di una voce politica che, pur in sordina, e nella forma di spille rosse, invocava la pace. E, viceversa, luoghi di politica come lo State of Union si sono fatti red carpet: gli abiti bianchi indossati lo scorso marzo dalle donne del partito democratico erano un’affermazione in sostegno dei diritti delle donne, svolta nella forma di tessuti candidi.
Nel dibattito sull’andamento di un business quanto mai altalenante, l’unica certezza rimasta invariata è il suo mese d’elezione: maggio, il cui primo lunedì coincide con il red carpet più atteso, il Met Gala. L’unico affaire di couture a precedere, in termini di interesse, attrattiva e MIV, quello degli Oscar, il Met Gala è la cerimonia che apre le porte alla mostra annuale di moda all’interno dell’istituto museale newyorkese. A livello istituzionale, si tratta dell’evento di beneficenza che ogni anno raccoglie fondi per il Met, con donazioni anche milionarie. E tuttavia, quella di evento di beneficenza è una definizione parziale del Met Gala, oggi ritenuto l’evento di massima visibilità e influenza nell’industria della moda. Il tema della serata che inaugura la mostra coincide con quello della mostra stessa, e a tutti gli ospiti è richiesto di rispettare tali linee guida nell’abbigliamento.
A vestirsi di ispirazione per il Met Gala di quest’anno è un racconto breve di JG Ballard, The Garden of Time, dove la relazione tra il giardino di Ballard e il titolo della mostra che ad esso si è ispirato, Beauties: Reawakening Fashion – “Belle Addormentate: il Risveglio della Moda” – è stato spiegato dal curatore Andrew Bolton nei termini di abiti d’archivio fragili, in parte erosi dal tempo, ma non per questo destinati alla polvere. Sono queste le belle addormentate che il Met, sulla scia dei dati relativi alla moda d’archivio, o meglio, del “business degli archivi”, ha risvegliato. Sul suo red carpet potremmo così aspettarci fiori appassiti su orditi preziosi, strappi, fini lacerazioni, metalli falsamente arrugginiti, dettagli surrealisti o stilemi fantasy, in omaggio alla biblioteca di Ballard, mentre sorgerà spontanea la domanda, rivolta alle celebrities, “chi stai indossando?”.